I taccuini di Tarrou – 292

L’uomo consapevole dell’insensatezza della vita si ritrova in un vicolo cieco, davanti a un muro, quel muro di Meyer che nell’Idiota è rappresentazione plastica del limite, ovvero della morte, imposto dalla malattia al giovane Ippolit. Non può tornare indietro, perché niente per lui sarà mai come prima; non può andare avanti, perché scalare quel muro, così alto e levigato, è impossibile, e per buttarlo giù servirebbe un enorme carico di dinamite: il consapevole stesso dovrebbe farsi dinamite, ma egli non ha altre armi all’infuori dei propri pugni. Insomma, egli è in trappola, come ogni uomo del resto (la trappola è la forma, la trappola è l’esistenza, la nascita, come rivela Pirandello nell’omonima, grandiosa e terribile novella, che non a caso si conclude con l’immagine distruttiva e purificatrice del fuoco), ma della condizione umana, a differenza di tutti gli altri, è appunto consapevole, e in ciò sta la sua tragedia. L’uomo pervaso dal sentimento dell’assurdo ride del suo stato e di se stesso, con il suo riso potente e irrefrenabile, omerico (ancora un riferimento pirandelliano, a quella «omerica risata» che scuote Mattia Pascal di ritorno a Miragno) riesce persino ad aprire una crepa nel muro. L’uomo pervaso invece dal sentimento del tragico sprofonda in se stesso, nella propria consapevolezza, nel proprio abisso interiore dissolvendosi a un ritmo corrispondente al proprio desiderio di scomparire. Vincere quel muro, il muro dell’esistenza, in ogni caso, non è possibile. All’uomo è concessa soltanto l’illusione di vincerlo, ma al consapevole anche, per molti aspetti soprattutto, questo conforto è negato, e a lui non resta altro da fare che ridere o morire.

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