I taccuini di Tarrou – 280

L’incipit dell’Ultimo giorno di un condannato a morte di Hugo, e quando scrivo incipit mi riferisco all’intero primo capitolo dell’opera, è uno dei più claustrofobici dell’intera storia della letteratura. A renderlo tale non è la cella in cui è rinchiuso il protagonista, ma il suo Io, lacerato, straziato, autentico centro del dramma hugoliano. È la libertà di pensiero, d’immaginazione a determinare la libertà dell’uomo, ancor più della sua condizione fisica, sostanziale (non a caso Myškin dice di aver compreso che si può essere liberi anche in una cella). Il pensiero della condanna a morte rode il condannato dall’interno come un tarlo, lo divora e con esso divora tutti i suoi pensieri, come se di essi si nutrisse, lo afferra, lo arronciglia nelle viscere e nelle carni, lo strazia come i demoni danteschi straziano i dannati, schiacciandolo a terra, impedendogli di evadere anche solo mentalmente dalla sua condizione, in una vera e propria tortura interiore senza fine.

Oltreché in uno stato di prigionia fisica, il condannato a morte si trova in uno stato di prigionia psicologica, o forse sarebbe meglio dire ontologica, ancor più terribile, se possibile.

Odilon Redon, Il condannato
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