I taccuini di Tarrou – 25

Dal momento della nascita, l’unica tragedia comune a tutti gli uomini, l’individuo inizia a scalare il suo Calvario, sul quale si sale non per scendere, ma per morire. Io sto facendo di tutto perché sulla cima del mio Calvario ci sia pace. Ma è forse possibile? Raggiungere questo obiettivo significherebbe riuscire laddove persino Cristo ha fallito.

(Per ore e ore mi sono domandato quale rappresentazione artistica del Calvario potesse accompagnare e impreziosire questa riflessione disperata e disperante. La scelta è ricaduta su due opere, Consummatum estJérusalem di Gérôme, un dipinto che, tra l’altro, credo di aver osservato dal vivo al Musée d’Orsay, ma non ne sono sicuro, e Golgotha di Munch. Tra le due, quale scegliere? Nell’opera di Gérôme l’aspetto più interessante è costituito dalla mancata rappresentazione della crocifissione – inevitabile in un pittore rettorico, schiavo della forma, di un realismo obsoleto e freddo, fine a se stesso -, o meglio, delle crocifissioni, perché Cristo non è mai stato né sarà mai il solo: le ombre delle vittime riflesse sul terreno aspro, arido e sterile del Calvario sono una raffigurazione particolarmente efficace del dramma umano, scandaloso, assurdo e al tempo stesso impalpabile, niente più che un’ombra appunto. Per quanto riguarda invece l’opera di Munch, grandiosa nel complesso e non solo in un particolare, trovo straordinario il senso d’angoscia, di soffocamento che essa esprime, e il fatto che l’uomo crocifisso, disperatamente solo, abbandonato a se stesso, sia appunto soltanto un uomo, peraltro come attonito dinanzi al suo terribile destino, svuotato, incapace persino di gridare, di ribellarsi all’ingiustizia subita. Per tutte queste inutili considerazioni credo sia giusto non scegliere e riprodurre entrambi i dipinti.)

Jean-Léon Gérôme, Consummatum est o Jérusalem, 1867
Edvard Munch, Golgotha, 1900
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