I taccuini di Tarrou – 235

Appunti kafkiani

I. È forse la resa di K. all’imperscrutabile strapotere della Legge e alla sua spietata logica a decretarne la condanna a morte. Perché, come scrive Kafka alla fine del Processo, la logica è certo incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuole vivere. Ecco, a K. manca forse la volontà di vivere, che sembra invece abbondare, quasi straripare nel suo omonimo del Castello, che ingaggia una vera e propria lotta con l’autorità. Che questa lotta sia destinata al fallimento, allo scacco, come lasciano intuire i presupposti, e non per una qualche mancanza, per una qualche insufficienza dell’agrimensore K., ma per gli oggettivi limiti umani, non ha alcuna importanza: ciò che conta è combattere, opporsi all’autorità, fronteggiarla, rivendicare i propri diritti, affermare se stessi, la propria libertà, il proprio diritto a esistere. Sia la Legge che il Castello distruggono l’individuo, e mentre il K. del Processo si lascia infine annientare, come in fondo si lascia annientare Gregor Samsa nella Metamorfosi, sebbene animato da un nobile e generoso slancio sacrificale verso la propria ingrata famiglia, il K. del Castello si oppone alla distruzione dell’individuo ordinata dall’autorità e dal suo sistema violento, repressivo: egli non fugge, ma resta, ingaggia una lotta, resiste e si pone dalla parte degli oppressi, degli emarginati. Il K. del Castello ha in sé il fuoco sacro della rivolta.

II. È ineguagliabile la visionaria efficacia con la quale Kafka rappresenta la frustrazione e l’impotenza dell’uomo moderno. Le sue opere sono incubi con i quali facciamo i conti ogni sacrosanto giorno, spesso senza rendercene conto.

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