I taccuini di Tarrou – 216

Ciò che sto per scrivere denota certamente tutti i miei limiti intellettivi, ma inizio ad avere il sospetto che gran parte della filosofia sia una sorta di storia del sovrapensiero. Come Camus credo che in fondo l’unico quesito filosofico davvero fondamentale sia se valga la pena vivere oppure no, dunque se convenga uccidersi oppure no. Sì, credo anch’io che tutto in definitiva si concentri in questa semplice e al tempo stesso terribile domanda, e che tutti gli altri problemi vengano dopo, siano in un certo senso sovrastrutturali. Ora, io non credo che valga la pena vivere, non credo che esista una sola gioia all’altezza delle innumerevoli sofferenze che l’esistenza ci costringe nostro malgrado a patire, ma inizio ad avere l’impressione che non valga neppure la pena uccidersi, perché in fondo, come dice Plotino all’amico Porfirio in quella che ritengo una delle vette del pensiero umano, «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla». Plotino invita Porfirio a lasciarsi svanire, a lasciarsi consumare naturalmente, perché la vita è qualcosa di così meschino e insignificante che non vale neppure la pena privarsene.

Ora, la mia natura non prevede esattamente questo e forse sto solo tentando di trovare una ragione, o meglio, una giustificazione alla mia incapacità di scomparire, che è ciò che vorrei, ma che non riesco ad attuare, prigioniero dei legami affettivi. Come potrei togliermi la vita sapendo di distruggere, con la mia, le esistenze dei miei familiari? Vorrei andare, vorrei liberarmi finalmente del dolore, della solitudine, della disperazione, di questo mondo maledetto che fa del male, dell’ingiustizia, della violenza il proprio sistema, ma non posso farlo: sono in trappola. Se ci penso, mi sento soffocare.

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