Ogni volta che inizio a scrivere non vedo l’ora di finire, come se la scrittura fosse un peso, una fastidiosa incombenza da sbrigare al più presto, un male necessario che non si può in alcun modo evitare. Quando scrivo perdo completamente la serenità – quel poco di serenità che mi resta -, tutti i miei pensieri, tutte le mie energie si concentrano sulla pagina, dalla quale non riesco a staccarmi, a fuggire, neppure quando sono impegnato in altre attività. Il corpo magari fa tutt’altro, ma la mente, preda di un’eccitazione febbrile, scrive senza sosta, versa inchiostro invisibile nell’aria. È una tortura. Nessuno mi impedirebbe di scrivere, anzi, in molti ne sarebbero felici – io per primo -, ma sarebbe come smettere di fumare – impossibile. Il male e il dolore non sono mai argomenti convincenti. Se così non fosse, metà degli uomini, forse anche di più, che in questo momento affollano la terra, non esisterebbero.
La scrittura non è mai stata per me un’attività pacifica, conciliante, ma una lotta, un sanguinoso corpo a corpo con me stesso e con i testi analizzati. Una lotta che non prevede vinti e vincitori, ma soltanto vinti. La scrittura è una sciagura, una malattia, una condanna, alla quale il mio stesso corpo si ribella. Quando scrivo assumo sempre posture assurde, mi contorco, mi ripiego innaturalmente su me stesso, come se dovessi costringere con la forza il mio fisico a fare qualcosa per cui non è adatto, non è predisposto. Mentre scrivo il mio corpo si ribella continuamente a questa attività, tenta di sfuggirla e devo contenerlo, devo domarlo, devo sottometterlo, in un impegno fisico che si aggiunge all’impegno cerebrale e mi sfinisce, mi sfibra, nel corpo e nella mente.
Quando la morte finalmente verrà, non sarà la liberazione solamente dalla vita e dal dolore causato dall’essere-in-vita, ma anche dalla malattia della scrittura.