I taccuini di Tarrou – 176

Non è un caso che la letteratura italiana inizi con una grandiosa, ineguagliabile rappresentazione della sofferenza: l’Inferno di Dante. La letteratura, e l’arte in generale, è anzitutto questo, la rappresentazione del dolore umano. La letteratura – l’arte – rivela e illumina ciò che fuggiamo, ciò che rimuoviamo, ma che, di fatto, ci costituisce, tutti, senza distinzioni: il dolore. Senza Inferno non c’è Paradiso, il «doloroso regno» rappresenta le fondamenta della grandiosa architettura dantesca, così come senza sofferenza non c’è gioia, come scrive Dostoevskij nell’appunto su Delitto e castigo più volte citato. Per giungere alla felicità bisogna passare necessariamente attraverso il dolore, come fanno Dante e Raskol’nikov, ma quanti di noi hanno la loro fortuna, perché alla fine dei conti credo che di fortuna si tratti? Io no di certo.

Delle due opere, i personaggi che sento più vicini a me sono Virgilio e il giudice Porfirij, che tutto sanno, tutto vedono e spiegano, aprendo la strada alla resurrezione dei loro protetti, ma sono destinati a restare per sempre dei condannati. Come, Porfirij un condannato? È il rapporto con Raskol’nikov, un assassino, certo, ma in divenire, in viaggio verso la resurrezione, la trasfigurazione dell’amore e della fede, a definire il destino cupo e incontrovertibile del giudice che, non a caso, nel momento di massima apertura verso l’altro, si definisce un uomo finito. Porfirij, che troppo sa e troppo vede, è stanco, mortalmente stanco, alla fine della sua parabola esistenziale, mentre Raskol’nikov è appena all’inizio.

Albrecht Dürer, Melencolia I
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