Gli sconfitti – Un amore e Francesca

«È innamorato?».
«In questo preciso istante?».
«In questo preciso istante».
«Sì, sono innamorato».
«E di chi? Se non sono troppo indiscreta».
«Di lei».
Accompagnò questa risposta lapidaria, che, non so ancora bene perché, reputai subito sincera, con un discreto sorriso.
Imbarazzata, presi tempo abbassando lo sguardo. Ripresi a parlare solo dopo alcuni, lunghissimi secondi di spiacevole silenzio.
«Di me? Ma se non mi ha mai vista prima?».
«E conta forse qualcosa? In amore la conoscenza non conta nulla».
Queste parole mi infastidirono. La trovai superficiali. Tentai di interromperlo, ma continuò. Non sorrideva più, anzi, sul suo volto campeggiava un’espressione seria e ostinata. Troppo seria e troppo ostinata.
«Non mi crede, vero? Come biasimarla. Eppure le assicuro che è così, sono innamorato di lei. Ogni qual volta esco di casa mi capita di innamorarmi. Persino più volte in pochi istanti. Lei sorride, crede che io la stia prendendo in giro, ma sono serissimo. Questo amore che provo quotidianamente per donne con le quali, al massimo, scambio uno sguardo fugace, lo stesso amore che provo per lei ora, mi creda, non è meno autentico o meno importante o meno potente di un amore che dura una vita. Di un amore che culmina nel sacro vincolo del matrimonio e magari nel concepimento di un figlio».
«Forse lei ha bevuto, oppure dice questo solamente perché non ha mai conosciuto il vero amore».
«Sono astemio. Dunque lei è una psicologa? Una psicologa che ha vissuto sulla propria pelle questo fantomatico vero amore di cui parla?».
«No. Io non sono una psicologa. Sono solo una donna. Una donna che tenta di dare una spiegazione plausibile a delle parole tanto…».
«Tanto assurde, forse? Intendeva dire questo? Oppure intendeva dire stupide? In ogni caso, mi creda, non volevo offenderla, né tanto meno risultare insolente. Chiedo scusa. E poi è stata lei a chiedermi se in questo momento sono innamorato».
«Non mi ha offesa. È solo che… solo che proprio non riesco a capire la sua teoria sull’amore. Tutto qui».
«Mi ascolti attentamente, è più semplice e, soprattutto, più umano di quanto possa sembrare in apparenza. Comunque, io non chiedo di essere compreso, non mi importa. Sono ben consapevole della singolarità dei miei sentimenti, ma impari che il vero amore, quello puro, disinteressato, autentico, si consuma presto, nei primi sguardi, nelle prime carezze, nei primi baci. Ciò che fa il maggior numero degli uomini è trasformare la passione amorosa in abitudine. L’amore non dura mai più di qualche mese».
Non chiedetemi come, né perché, ma quell’uomo così strano mi convinse. Per questo motivo quella stessa sera accettai il suo invito a cena. Per questo stesso motivo il giorno seguente lo rividi. Per questo stesso, identico motivo due giorni dopo decisi di baciarlo, e poi di fare l’amore con lui.
Sempre per questo stesso, identico e stramaledetto motivo quattro mesi dopo non mi opposi a una dolorosa separazione, celando una scomoda gravidanza. Scomoda per lui, ma non per me, non per una donna.
L’essenza del più grande amore della mia vita è tutta qui, in queste poche righe scritte in una delle tante notti in cui il neonato grida affamato e già sofferente, e mi sveglia, costringendomi violentemente a pensare a quel suo padre che non conoscerà mai.

FRANCESCA

Da quando avevamo circa vent’anni, io e i miei amici frequentavamo praticamente ogni sera lo Spleen Cafè. Trasportati da gustose birre belghe, avvolti dalle fitte e vaporose nubi di tabacco, amavamo perderci in discussioni sull’arte, la letteratura, la filosofia, vaneggiare viaggi e amori impossibili e molto, molto altro.
A distanza di quindici anni dalla prima volta in cui varcammo la soglia di quel locale, in cui il jazz risuonava potente, non è più così. Non sono rimasto che io, solo, a frequentare ogni notte lo Spleen Cafè. I miei amici sono svaniti. Uno dopo l’altro. Chi si è trasferito all’estero, per sempre, chi ha trovato la donna della vita, chi ha addirittura messo su famiglia, chi è morto.
Il jazz non suona più come quindici anni fa, è meno potente, o forse è solamente una mia impressione. Forse è la solitudine a mitigarne il suono. Seduto al solito tavolo in compagnia di birra e tabacco, non parlo né vaneggio più. Mi limito a pensare, scrivere, osservare e, di tanto in tanto, ascoltare.
Una sera, nel locale, attirò la mia attenzione una donna, una gran bella donna. Non riuscii neanche per un istante a staccare lo sguardo dalla sua figura. Era in compagnia di una coppia, probabilmente marito e moglie. Quando questi se ne andarono, lei rimase e, con un delicato cenno del capo, mi invitò al suo tavolo. Sorpreso accettai e in fretta mi diressi da lei. Da vicino potei ammirarla meglio. I capelli neri e lievemente mossi emanavano un profumo intenso e gradevole. Il volto chiaro e disteso incorniciava uno sguardo attraente e labbra sottili che sorridevano, delicate e discrete. Doveva avere una decina di anni più di me. Mi colpirono in particolar modo le sue mani. Mani dalle lunghe dita sottili e armoniose che culminavano in graziose unghie curate e dipinte di nero.
«Da quando sei entrato, non mi hai tolto neppure un attimo gli occhi di dosso».
Imbarazzato risposi che il mio sguardo da esteta consumato non poteva che incagliarsi su di una creatura femminile di tale bellezza come lei.
«Mi chiamo Francesca».
«Io Guido».
Avete presente quando incontrate una persona, mai vista prima, scambiate qualche parola con lei e avete subito l’impressione di conoscerla da sempre? Ecco, così mi sentii parlando con Francesca. In due ore ci raccontammo molto, se non tutto, delle nostre vite.
La mia intuizione iniziale si era dimostrata esatta, aveva infatti quarantacinque anni. Lavorava come bibliotecaria, non era sposata, e non aveva né un compagno né figli.
Dopo un’intensa conversazione, ci lasciammo dandoci appuntamento alla sera seguente allo stesso locale, lo Spleen Cafè.
Tornai a casa provando sensazioni strane. Mi sentivo come rinnovato da quell’incontro con Francesca, come se, d’un tratto, fossi tornato a vivere, come se fossi rinato miracolosamente una seconda volta. Non avevo mai provato emozioni simili, davvero incredibili. Dormii di un sonno profondo eppure al tempo stesso leggero, come non mi capitava da molti, moltissimi anni. Senza incubi, né tormenti. Mi svegliai clamorosamente di buon umore. Qualcosa di vicino alla gioia mi pervase dal momento in cui posai il piede fuori dal letto. Trascorsi l’intera giornata camminando molto e aspettando con trepidazione la serata, il momento in cui allo Spleen Cafè avrei rivisto Francesca. Avevo una voglia matta, incontenibile di trascorre del tempo in sua compagnia, di parlarle, di accarezzarle le mani. Di ascoltarla e osservarla sorridere. Di baciarla, magari.
Mi preparai all’appuntamento con una cura maniacale, inconsueta.
Raggiunsi il locale alle ventidue, come al solito. Francesca non c’era. Ordinai la birra, mi sedetti al tavolo ed eccitato come un ragazzino iniziai ad aspettare l’istante in cui Francesca avrebbe varcato la soglia dello Spleen Cafè in tutta la sua ridente bellezza. Nell’attesa mi immersi interamente nel ricordo del nostro incontro avvenuto la sera precedente.
Passarono due ore, un’altra birra e molte, troppe sigarette, ma di Francesca neppure l’ombra. Oramai sapevo che non sarebbe venuta, e una fitta nube di mestizia mi avvolse.
Intorno alla mezzanotte mi avvicinò un uomo di mezza età. Mi disse di seguirlo fuori dal locale. Doveva parlarmi di una questione importante.
Lo riconobbi subito, era l’uomo che la sera precedente, in compagnia di quella che reputai allora sua moglie, si trovava nel locale con Francesca.
Aveva un brutto aspetto. Fisicamente era evidente una stanchezza dovuta all’assenza di sonno. Ma quel che soprattutto mi colpì fu la tristezza, profonda quanto un oblio, che caratterizzava il suo sguardo.
«Lei è Guido, vero?».
«Sì, sono io. La manda Francesca, non è vero?».
«Sì. Sto per darle una notizia orribile. La scorsa notte, Francesca, dopo averla lasciata, tornando a casa in automobile ha avuto… ha avuto un terribile incidente. Chissà perché ha perso il controllo del veicolo e si è schiantata contro un albero…».
Terrorizzato chiesi come stava.
«Dopo un giorno intero di agonia, si è spenta pochi minuti fa. Prima di morire mi ha detto di avvertirla. Ora devo tornare in ospedale, mia moglie, che poi è la sorella di Francesca, mi aspetta. Addio».
Come inorridito, e al tempo stesso smarrito, tornai all’interno dello Spleen Cafè. Con enorme fatica pagai e me ne andai, di corsa, quasi a gambe levate.
Persi presto la cognizione dello spazio e del tempo. Senza accorgermene, camminai tutta la notte. Ripresi coscienza all’alba, seduto in spiaggia, fortunatamente non molto lontano dalla mia abitazione. Osservando il sole venire su e il chiarore effondersi, iniziai a sentire freddo.
L’immagine di quel nuovo giorno, insieme alla morte di Francesca, mi svelarono che tutto a questo mondo è un tramonto. Così come la nascita di un bambino non è che il primo atto della sua futura, certa morte, l’alba più che il sorgere del sole è il tramontare delle stelle e della luna, della notte.
Mai la notizia di una morte mi aveva sconvolto tanto. Avevo trascorso con Francesca non più di due, tre ore, eppure era come se con lei fosse svanita una considerevole parte di me stesso. E se lei, morente, aveva avuto un pensiero per me, ciò non faceva altro che avvalorare questo pensiero. Ci conoscevamo da sempre, anche senza esserci mai incontrati prima di quella sera allo Spleen Cafè.
Stanco e infreddolito tornai a casa, reggendomi a stento sulle gambe. Raggiunto il letto, sprofondai in esso come in un sepolcro, e dormii tutto il giorno.

***

Sono passati oramai due mesi esatti da quella notte, eppure non ho ancora superato del tutto la morte di Francesca. Non riesco più a entrare allo Spleen Cafè, è ancora troppo, troppo forte il ricordo. Cammino, durante gran parte della notte. E mi sento davvero solo, come mai mi ero sentito prima.
In passato avevo la speranza di poter incontrare una persona che poteva rappresentare il mio completamento, quella parte di me che non conoscevo. Vivevo di questa speranza. Ora non più. Quella persona l’ho conosciuta ed è morta. Ora sono davvero solo, e vuoto. Ora non mi resta che camminare e aspettare, nient’altro. Camminare e aspettare di morire, nient’altro.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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