Gli sconfitti – L’estasi e l’oblio

Se «Gli sconfitti» fosse un libro, un libro vero, di quelli di carta, che si afferrano e si tengono in mano e si sfogliano, si sottolineano, si orecchiano, magari si strappano o si scaraventano contro il muro o si gettano dalla finestra, le seguenti sarebbero le ultime pagine.

Questi racconti appartengono a un tempo perduto, morto e sepolto. Rileggerli mi ha strappato più di un sorriso. Con questa raccolta ho lo stesso rapporto che un uomo adulto ha con il ricordo delle stupidaggini adolescenziali. Ripensando ad esse si arrossisce, ma nulla più, consapevoli del fatto che in fondo si è trattato di peccati veniali, innocui, cosucce da niente.

E in fondo questi racconti, con i loro personaggi da catalogo, non sono che il frutto di una goffa emulazione. Due in tal senso sono i casi più eclatanti, che non vi saranno sfuggiti: «La confessione»non è che la riscrittura del capitolo «Da Tichon» dei «Demoni» di Dostoevskij; «La redenzione» non è che la «tristissima copia» del rapporto tra Sonja e Raskol’nikov in «Delitto e castigo».

Qualcosa d’originale ci sarà pure, forse, qua e là, così come, forse, ci sarà pure qualcosa di apprezzabile. Io questo non lo so. So solo che quando scrivevo questi racconti credevo di scrivere qualcosa, non dico di importante, ma di dignitoso e per questo stimabile, almeno da qualcuno. La mia non vuole essere in alcun modo una assoluzione, ci mancherebbe altro. «Gli sconfitti» è solo la bagatella giovanile d’uno che s’illudeva d’essere ciò che in realtà non era, ad oggi non è e probabilmente non sarà mai. Tutto qua.

Un’ultima cosa. In nota ho riportato i testi delle poesie citate per rendere il racconto meno inutile.

L’ESTASI E L’OBLIO

Ponete pure a Enrico questa sciocca domanda: qual è stato uno dei giorni più felici della tua vita? Egli, forse un poco rabbuiato, ma con un fulgente bagliore negli occhi, non esiterà a rispondervi:
«Il giorno in cui Alice mi ha donato Il mio credo di Hermann Hesse».
Ponete poi a Enrico quest’altro quesito, meno sciocco del primo e più sensato: qual è uno dei tuoi scrittori preferiti? Egli, sempre rabbuiato, ma sempre con lo stesso, fulgente bagliore negli occhi, vi risponderà con impeto, con ardore:
«Hermann Hesse, perché a farmelo scoprire è stata una delle donne che più ho amato nella mia vita».
Enrico e Alice si conobbero all’università. Erano entrambi iscritti al corso di laurea in Lettere moderne, alla Sapienza. Un mattino qualunque il caso li fece sedere uno accanto all’altra e subito, i due giovani, instaurarono tra di loro un rapporto intimo. Avevano caratteri molto simili e, soprattutto, condividevano la stessa, sconfinata passione per la letteratura e l’arte.
Enrico e Alice iniziarono ben presto a frequentarsi anche dopo le lezioni e, nel giro di poche settimane, finirono per non avere più segreti l’uno per l’altra. Alice rappresentava per Enrico una luce, o meglio, un «appiglio», come vedremo poi. Nella sua monotona e buia esistenza la giovane aveva riportato lo splendore e una ventata d’aria nuova, fresca, pulita.
Il rapporto con Alice rendeva alla vista di Enrico il mondo meno nauseabondo, al suo olfatto meno fetido, al suo udito meno stridente, al suo gusto meno amaro e al suo tatto meno duro, spigoloso.
Il giovane era un aspirante scrittore, addirittura un aspirante poeta e, in Alice, aveva trovato la lettrice e la consigliera ideale. Enrico le leggeva tutto ciò che scriveva e lei apprezzava e consigliava.
Enrico era però anche un aspirante suicida e, in Alice, aveva trovato una cara e sensibile spalla sulla quale piangere, un cuore pulsante al quale confessare i suoi impeti mortuari che, trovando una via di sfogo, giorno dopo giorno, si affievolivano sempre di più.
Enrico provò immediatamente per Alice un’ardente passione, che sfociò in amore il giorno in cui – lo abbiamo ricordato all’inizio – la giovane gli regalò la pregevole opera del grande Hesse.
Enrico entrò nella grande aula A della facoltà di Lettere e filosofia alle otto, e intravide subito Alice che lo attendeva comodamente seduta in quinta fila. La raggiunse e lei lo salutò con il consueto trasporto. All’improvviso la giovane trasse fuori dalla borsa un libro, Il mio credo di Hermann Hesse, e lo porse a Enrico. Lui, incredulo, lo afferrò.
«Ieri, sistemando la mia camera da letto, ho ritrovato quest’opera e ho pensato di dartela. Sono sicura che ti piacerà. Conosci Hesse?».
«No… non ho mai letto niente di suo…», biascicò inebetito Enrico, sforzandosi di mantenere un certo decoro, una certa dignità.
Quel semplice gesto, quel gesto apparentemente così insignificante e innocuo, fece esplodere nel giovane l’amore per Alice. Gli sembrava davvero incredibile, quasi assurdo, che esistesse una persona che pensasse a lui anche quando non gli era accanto. Questo pensiero fu la causa di tutto.
Qualche giorno dopo, come ringraziamento, Enrico donò ad Alice una delle sue due copie de Lo spleen di Parigi di Charles Baudelaire, uno dei suoi autori preferiti, accompagnandola con una struggente e patetica dedica primo frutto del suo amore, subito immenso e incondizionato.
Il sentimento di Enrico cresceva a dismisura di giorno in giorno, ma il giovane temeva di rivelarlo ad Alice. Aveva paura di un rifiuto e, soprattutto, di rovinare quel rapporto idilliaco. Così si accontentava di parlare all’amata, di starle accanto, di vederla sorridere e di tenerle la mano. Sì, Alice gli permetteva di tenerle la mano.
I due si scrivevano molto e, a questo punto del nostro racconto, avete elementi sufficienti per comprendere appieno le parole di Alice ed Enrico.

5/3/20..

Mia cara Alice,
non ti invio parti del “romanzo” perché non sono ancora del tutto sicuro di aver creato qualcosa di decente, qualcosa di letterariamente degno.
Quando capirò che ciò che ho scritto sia quantomeno accettabile, sarai la prima a saperlo, e a leggere l’opera.
Un caro saluto.
Tuo,
Enrico

6/3/20..

Caro Enrico,
ti confesso che non aver trovato neppure qualche pagina del tuo romanzo è stata una delusione.
Sappi che attendo con ansia di riceverle, un giorno. Intanto mi accontento di leggere ciò di cui sei certo al cento per cento.
Alice

9/3/20..

Mia cara Alice,
ti invio tre diversi incipit che ho scritto e con i quali credo di poter iniziare il romanzo.
Dimmi quale ti piace di più e perché, così che io possa avere un punto di riferimento basato non solo sulle mie soggettive convinzioni.
Buona lettura, spero…

INCIPIT NUMERO 1
Come la maggior parte degli uomini ai quali la vita ha riservato soprattutto delusioni e sofferenze, Giuliano non aveva una grande considerazione di se stesso. Reputava l’intera sua esistenza un fallimento, un misero e inutile fallimento.
Romanzi faticosamente scritti e versi profondi mai pubblicati. Una professione, il giornalista, di certo generalmente nobile, nel suo caso pura scelta di ripiego per cause economiche. Una laurea mai raggiunta, divenuta lontano miraggio. Amori sbagliati, fughe vigliacche, sogni uccisi eccetera, eccetera.
Il suo volto pallido era quello di un individuo che da un pezzo aveva rinunciato a vivere. Quello di un individuo in cui la solitudine (sebbene compagna voluta e prediletta), la noia, la malinconia, l’indifferenza, l’apatia, l’impotenza, il nulla, il dolore, il nichilismo e un più generale malessere, sintesi di tutte queste componenti, erano stabilmente entrati in circolo nel sangue avvelenandolo, e raggiungendo ogni tessuto, ogni muscolo e ogni organo.
L’unico modo per aprire un varco, seppur solo temporaneo e provvisorio, in quella fitta coltre di nebbia, quale troppo presto era diventata la sua realtà, non poteva che essere rappresentato dall’evasione.

INCIPIT NUMERO 2
Notte fonda. L’autunno, in declino, lasciava spazio all’inverno che, trionfale, tramite il vertiginoso crollo delle temperature e il sensibile accorciarsi delle giornate, manifestava il suo arrivo. La natura godeva, seppur solo per qualche breve ora, della scomparsa della tirannia meccanica dell’uomo. Il silenzio veniva spezzato dal gracchiare mortuario di una cornacchia insonne e dallo schiantarsi delle onde del mare in eterno fluire contro gli scogli.
Giuliano, abbandonato sul vecchio divano in pelle color porpora nel salotto della sua casa, osservava, come un dio impotente, i resti agonizzanti di una candela produrre gli ultimi bagliori di luce.
Afferrato dal bisogno, ancor più che dalla voglia, decise di fumare una sigaretta. Le prime boccate furono così avide e profonde da creare fitte nubi artificiali, molto simili a quelle che, meravigliose, decoravano in quelle ore il cielo cupo. Il tabacco, penetrante e mischiato alla nicotina, lo aiutava a distendere e rilassare ogni nervo, ogni tessuto e ogni muscolo.
Aveva un unico pensiero fisso nella mente, dal quale proprio non riusciva a fuggire. Un pensiero più volte sfiorato, tutt’al più sussurrato, che però iniziava con prepotenza e continuità a stabilirsi nel suo animo.
Trasferirsi per qualche mese in un’altra città, in un altro paese, lasciando così sospesa per un po’ una vita divenuta troppo presto noiosa, incolore e avara di soddisfazioni. Riprendere fiato e staccare la spina da quei volti e da quei luoghi abitudinali e malsani. Iniziava davvero a essere nauseato dalla quotidianità fatta nient’altro che di lavoro, sventure e vuoto.
“D’accordo, andare via. Ma dove?”, continuava a ripetere tra sé, speranzoso di trovare il prima possibile una risposta definitiva. Improvvisamente una città cominciò a delinearsi, come una fragile visione, nei suoi occhi stanchi e socchiusi: Amsterdam.

INCIPIT NUMERO 3
Ci sono particolari momenti nella vita di un uomo in cui si avverte il bisogno di fuggire, di cambiare aria, di non vedere per qualche tempo luoghi e persone divenuti abitudinali. C’è chi ha la capacità di allontanare tale necessità e chi, invece, come accadde a Giuliano, non può proprio rifuggire da essa.

Come ultima cosa voglio citarti una frase che reputo splendida contenuta ne Il mio credo di Hesse: «Ognuna delle parvenze, io e te, l’amico e il nemico, l’animale e l’uomo, sono fenomeni momentanei, frammenti, effimere incarnazioni dell’uno primordiale, e ad esso debbono sempre tornare».
Con affetto, tuo
Enrico

10/3/20..

Caro Enrico,
dopo aver letto quello che mi hai inviato, non riesco proprio a capire perché tu sia tanto insoddisfatto di ciò che hai scritto.
Trovo tutti e tre gli incipit coinvolgenti e ben scritti.
Appena li ho letti ho desiderato di avere il seguito del romanzo per poter continuare a leggere della vita sfiduciata di Giuliano e, poiché credo che nei romanzi l’essenziale sia voler andare avanti nella lettura,voler leggere il libro e, più in generale e mal detto, volerne di più, direi che hai scritto delle gran belle cose.
Inoltre in tutti i e tre i brani sei riuscito a ricostruire e trasmettere l’atmosfera di una vita spenta, il che non è poco.
Ti dirò che, paradossalmente, i tre incipit potrebbero andare tutti e tre insieme a costituire l’inizio di una sorta di prologo, se vuoi, della storia.
Metti, per esempio, (e qui sto andando oltre ma, va bene, prendila così per dire tra di noi):

[prima pagina del libro]
INCIPIT NUMERO 3

[pagina vuota]
Prologo
INCIPIT NUMERO 1 e INCIPIT NUMERO 2

Certo, andrebbe cambiata qualche cosa interna alla struttura dei testi, ma non sarebbe male.
Cerca di immaginartelo!
Se invece devo proprio scegliere fra i tre preferisco il primo, perché c’è un buon equilibrio tra detto-non detto che fa crescere la curiosità di chi legge invogliandolo ad andare avanti.
Comunque queste sono solo mie idee, da semplice lettrice, non è detto che sia giusto quello che ti dico.
Sappi comunque che mi piace molto come scrivi e che, da lettrice, sono davvero curiosa di conoscere la storia che celano questi incipit.
Sono contenta che tu mi abbia mandato queste pagine e devo essere io a ringraziarti per la fiducia e la considerazione. Spero di esserti un minimo utile.
Ah, sono felice anche che Il mio credo ti stia piacendo, anche se ne ero abbastanza sicura. È un gran bel libro.
Con affetto,
Alice

12/3/20..

Cara Alice,
hai letto Lo straniero [1]? In quei magnifici versi ci sono io, tutt’intero e, leggendoli, riuscirai a capirmi totalmente.
Amare le nuvole, le «meravigliose nuvole» è una condanna, meravigliosa e straziante al tempo stesso.
Sono sicuro che tu mi capisca, più di ogni altra persona a questo mondo.
Un caro saluto.
Tuo,
Enrico

15/3/20..

Caro Enrico,
Se sia una condanna oppure un privilegio non lo so. Però credi bene, anch’io, spesso, mi sono ritrovata ad amare le «meravigliose nuvole».
Grazie davvero,
Alice

25/3/20..

«Tuttavia vuoto è il piacer / se in esso non muove anche il dolor».
Non so come tu abbia fatto a pensare che questa possa essere spazzatura… Sono seriamente colpita!
Avremo comunque modo di parlarne meglio, ma sappi che sono onorata di aver potuto leggere le tue poesie!
Con affetto,
Alice

15/4/20..

Caro Enrico,
mi è venuto ora in mente un sonetto del Foscolo le cui ultime due terzine mi hanno ricordato qualche nostro discorso.
Se non ricordo male, recitano così:

«Che se pur sorge di morir consiglio,
A mia fiera ragion chiudon le porte
Furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
E so invocare, e non darmi la morte» [2].

Anche se non ci vediamo, fatti vivo di tanto in tanto, altrimenti mi preoccupo.
Alice

16/4/20..

Mia cara Alice,
quelle tue inattese parole ricevute ieri, hanno avuto il miracoloso potere di rischiararmi, seppur per qualche breve ora.
Il solo pensiero che tu abbia accostato la nostra esperienza a versi eterni come quelli del Foscolo, mi fa tutt’ora sussultare.
Spesso ti ho detto quanto io mi ritenga fortunato ad aver conosciuto una persona come te. L’unica alla quale ho fatto leggere i miei poveri versi più intimi, ma, soprattutto, l’unica alla quale ho confessato i miei folli (forse neanche troppo così folli) propositi suicidi.
Perché a te sola? Perché so per certo che parlando a te non parlo al nulla, al vuoto e neppure a una semplice donna, ma a un essere mio simile, nelle cui vene, mischiati al sangue, scorrono litri e litri e litri di poesia.
So che il messaggio inviato in risposta, possa esserti sembrato eccessivo, esagerato o, quantomeno, frutto di un entusiasmo circoscritto al momento e poi subito smarrito, ma non è così, no, non è così.
Da qualche settimana a questa parte, da quando abbiamo iniziato a trascorrere insieme qualche ora, parlando del tutto liberamente delle nostre esistenze, sei tu, tu il mio più grande appiglio.
Quello che compare all’improvviso, quando credi che non ci sia più nulla da fare, quando credi che tutto sia perduto e intorno a te non ci sia altro che deserto, e sabbia, e sole. Quando credi che l’acqua, l’ombra e un poco di fresco non siano altro che sogni, dolorosi e stupidi sogni.
Quando poi arriverà il momento di tornare ognuno ai propri posti – perché so che, prima o poi, forse tra non molto, ciò accadrà – e non ci vedremo né sentiremo più, in me resterà molto più del tuo ricordo. In me resterà la tua immagine, il tuo tatuaggio.
Sarà un’immensa consolazione per me, per il mio animo debole e prostrato, sapere che su questo sordido globo sempre più dannatamente piatto esiste almeno un esemplare della mia stessa natura.
Nella tua essenza ho trovato indoli che solamente io credevo di possedere. Pensa, a volte capita addirittura che io mi illuda di credere che non siamo uomini, non possiamo esserlo…
Questo particolare periodo della mia esistenza sta inevitabilmente diventando un romanzo, del quale sono già miracolosamente a buon punto. Sono le memorie di un giovane che ha deciso di suicidarsi.
La protagonista femminile non poteva che essere modellata su di te. Avrà il tuo stesso nome, i tuoi stessi capelli rossi, i tuoi stessi occhi verdastri, il tuo stesso sguardo languido – non so perché, ma dal primo istante in cui ti ho intravista, io lo vedo così. Avrà il tuo stesso tatuaggio dietro al collo, la tua stessa pelle chiara, le tue stesse sottili vene scure. Amerà Caspar David Friedrich e Ugo Foscolo. Tutto questo solo se me lo concederai, ovviamente.
Perdonami per il tempo che perderai leggendo questa lettera, nella quale però sono scritte cose che pensavo da molto tempo e che avevo un urgente bisogno di dirti.
Buona giornata Alice.
Tuo,
Enrico

P.S. La mia volontà di vivere è ancora un tantino superiore a quella di morire, puoi stare tranquilla. Almeno per qualche mese. Credo.

20/4/20..

Enrico,
ti chiedo subito scusa se ti rispondo in ritardo.
Non so come ringraziarti per queste parole. Forse è inutile che io ti dica che anche a me ha fatto molto piacere condividere passioni, pensieri, paure con una persona come te, che percepisce questo mondo alla stessa maniera in cui lo percepisco io.
Il fatto che una persone instabile e debole come me possa essere considerata un appiglio però mi preoccupa, non so davvero quale solidità potrei garantirti dal punto di vista psicoemotivo, ma comunque sono contenta che in un modo o nell’altro (anche con un messaggio con due terzine del Foscolo) le mie parole riescano a confortarti.
Naturalmente sono lusingata anche di poter essere fonte di ispirazione per il personaggio di un tuo romanzo (anche qui però sono titubante riguardo quale interesse potrebbe suscitare una figura come me) che, non c’è neanche bisogno che te lo dica, spero di poter leggere al più presto.
Detto ciò ti rinnovo i miei ringraziamenti per questa bellissima lettera e rimando a presto una delle nostre stupende chiacchierate.
Sperando che la tua voglia di vivere riesca presto a riscoprire se stessa, ti saluto con affetto,
Alice

Il giorno seguente all’ultima lezione, Enrico e Alice decisero di trascorrerlo insieme per le gravide strade di Roma.
Il giovane volle portare Alice nei due posti della città eterna ai quali era più legato. Innanzitutto Campo de’ fiori, che definiva il suo Golgota. Giordano Bruno era infatti il suo Cristo.
«Cosa intendi con l’espressione “il mio Golgota”?», chiese Alice a Enrico.
I due si erano accomodati nella piazza e contemplavano l’imponente e austero monumento che la dominava.
«Il Golgota, noto anche come monte Calvario, è il luogo dove fu crocifisso Cristo. Il mio Dio è la Cultura, io credo solo nella Cultura e Giordano Bruno, questo meraviglioso visionario, paladino della libertà di pensiero e di ricerca, è il mio Cristo, il mio profeta ucciso dalle autorità che temevano le sue rivoluzionarie rivelazioni. Guarda questo mio talismano».
Enrico trasse fuori dalla camicia una sorta di amuleto, che portava al collo.
«Cos’è?», gli domandò meravigliata la giovane.
«Non appena conobbi, oramai molti anni fa, l’incredibile e ingiusta vicenda di Bruno, a scuola, appena tornato a casa mi precipitai nella mia camera da letto. Da uno dei cassetti del comodino in cui è riposta la biancheria intima, afferrai un rosario, donatomi a catechismo quando ero un ragazzino. Afferrai un coltello e tagliai la cordicella alla quale pendeva la piccola croce di legno. Poi, con lo stesso coltello, spaccai quella stessa, piccola croce privandola della barra orizzontale. Ed ecco quel che ne resta, la barra verticale. Rappresenta il palo sul quale fu affisso e arso vivo Bruno».
«Tu sei pazzo… E anche blasfemo. Raccontami qualcosa di quegli ultimi giorni del filosofo».
«Potrei raccontarti l’intero processo, ma sarebbe troppo noioso. Mi limito a svelarti qualche fondamentale dettaglio. Pensa, dopo aver ascoltato in ginocchio la sentenza che lo condannava a morte, l’8 febbraio 1600, Bruno si alzò in piedi e ai giudici disse: “Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla”».
«Magnifico… Che coraggio».
«Bruno era un animo bellicoso, indomabile, un vero leone selvaggio. Pensa, in vita era riuscito a farsi scomunicare da tutte le chiese europee allora esistenti. Comunque, prima di bruciarlo dovettero addirittura inchiodargli la lingua, tanto imprecava, tanto bestemmiava».
«Beh, lui era un vero e proprio anticristiano».
«Sì, odiava Cristo. L’ambasciatore francese si lamentò per l’odore di carne bruciata… Pensa che scena. Questo nobile imbellettato, nella sua sfarzosa residenza di palazzo Farnese, magari intento a consumare un prelibato pasto, si infuria perché la sua residenza è invasa dal fastidioso lezzo di carne bruciata. Comunque, dopo l’assurdo omicidio, le ceneri del filosofo vennero raccolte e gettate nel Tevere. Ah, un’ultima cosa, il volto di Bruno…».
«Il volto della statua?».
«Sì, il volto della statua. È rivolto nella direzione del Vaticano, come perpetuo ammonimento».
«Geniale!».
«Una magra consolazione».
Enrico, infervorato, trasse fuori dallo zaino il suo taccuino e iniziò a scrivere. Alice lo osservava sorridente. Quanto era singolare quel suo coetaneo! Non aveva mai conosciuto un ragazzo di tal fatta. Era per lei un piacere trascorrere del tempo in sua compagnia.
Probabilmente Alice non provava per Enrico quel folle amore che lui provava per lei, ma ciò non le impediva di osservare, di contemplare il giovane con trasporto.
Enrico sentiva gli occhi di lei su di lui e ciò lo rendeva felice, meno inquieto di quanto solitamente non fosse. Poi, sostare lì, in uno dei suoi luoghi sacri, con accanto la donna amata, addirittura lo esaltava. E tale esaltazione lo aveva persino condotto a un istante di fulgente ispirazione. Per questo motivo, improvvisamente, aveva afferrato il taccuino e aveva iniziato a scrivere con grande velocità, perdendosi per strada addirittura qualche lettera.
«Fatto!», proclamò dopo diversi minuti di intensa creazione, fissando Alice con uno sguardo di fuoco.
«Leggi», lo esortò la giovane.
«Sì. Dunque… Mi sono ricordato all’improvviso di una notte, una notte trascorsa proprio qui, qualche mese fa. Allora… Sì, inizio:
Osservo la piazza spoglia, semi deserta. Le tre del mattino, e solo qualche fastidioso superstite e il rumore dei mezzi della nettezza urbana, al lavoro.
Tutte le imposte dei secolari palazzi circostanti sono sbarrate, addormentate, perdute negli inestricabili labirinti dell’universo onirico. Osservo il monumento bronzeo, l’alta, austera figura ammonirmi, come il volto severo ogni giorno ammonisce e ammutolisce la Chiesa omicida. Immagino quel giorno, quel lontano diciassette febbraio, Bruno, lingua in giova, denudato e affisso a un palo dimenarsi e soffrire, carbonizzato dalle fiamme alte del rogo, orribile. Immagino il demonio celato tra la moltitudine entusiasta assistere al dramma e provare sottile amarezza. Immagino le ceneri polverose gettate con disprezzo nel Tevere, nuotare e presto svanire nell’oblio profondo delle acque errabonde. Le vedo. Le sfioro. Mi chiedo in quanti, ebbri e sciocchi frequentatori di Campo de’ Fiori
conoscano la storia del filosofo. Una voce, rassegnata e stanca mi risponde: “Nessuno”. Nessuno sa cosa accadde nel luogo in cui schiamazza e annega, nessuno, ma io sì, e indicibilmente soffro rimembrando la storia, seduto qui, ove il rogo arse. Fine».
Alice gli accarezzò delicatamente la mano destra. Quella stessa, tormentata mano destra che aveva appena prodotto e ora era sfinita, abbattuta.
Dopo Campo de’ Fiori, Enrico condusse Alice in un altro luogo a lui molto caro: la Basilica di San Pietro in Vincoli, all’interno della quale è contenuta la tomba di Giulio II, realizzata da Michelangelo. Fa parte del monumento anche il celebre Mosè.
I due giovani, immersi nel silenzio della Basilica, osservavano l’emozionante statua. Enrico si avvicinò all’orecchio di Alice e iniziò a sussurrarle qualcosa.
«Si narra che Michelangelo, ammirando il suo Mosè, estasiato dalle forme tanto realistiche dell’imponente scultura, sia stato colpito da un violento accesso d’ira e abbia esclamato la celebre frase “Perché non parli!?”. Non solo, si narra anche che l’artista abbia addirittura colpito con veemenza il ginocchio del personaggio biblico utilizzando un martello. Molto probabilmente si tratta solo di una leggenda e nulla più, ma… Ricordo bene il giorno in cui vidi per la prima volta dal vivo il Mosè. Ero un adolescente disinteressato, che di arte non sapeva e non voleva saper nulla. Ebbene, quel lontano pomeriggio di primavera, la vista della maestosa e magnifica scultura rappresentò il mio ingresso nel mondo dell’arte, dal quale non sono più uscito. Dinanzi l’impressionante capolavoro persi immediatamente la mobilità e la facoltà della parola. Esterrefatto, atterrito, sbalordito dall’imponenza di quell’uomo barbuto scolpito incredibilmente nel marmo, tanto vigoroso e realistico da incutere rispetto e soprattutto timore, compresi il senso del termine ammirazione. Per lunghi, lunghissimi istanti, soggiogato dalla meraviglia e dallo stupore rimasi immobile di fronte al Mosè. Riuscii solamente, e a malapena, a produrre un fragile pensiero, idealmente simile a quel “Perché non parli!?” gridato a squarcia gola da Michelangelo secoli prima. Io non gridai, sussurrai appena la frase, che non fu causata dalla rabbia, ma da quello sconfinato sentimento di ammirazione che oggi provo ogni qual volta il mio sguardo si posa su di un capolavoro artistico. Non dimenticherò mai quel fatidico pomeriggio, quella visita decisiva in una basilica incastonata come un prezioso gioiello nel cuore della città eterna. Perché fu proprio da quel pomeriggio che iniziai a prendere coscienza della bellezza, dell’estetica e dell’arte in tutta la sua immensa grandezza. Oggi osservo la scultura, e oltre all’ammirazione provo gratitudine….».
Alice, dopo aver ascoltato quelle parole appena sussurrate, strinse forte la mano di Enrico, fin quasi a fargli male.
I due giovani terminarono il loro “pellegrinaggio” a Roma nel meraviglioso giardino degli Aranci, un incantevole parco sull’Aventino dal quale si può godere di una vista mozzafiato della città eterna.
Alice ed Enrico vi giunsero intorno alla mezzanotte. Immediatamente i loro giovani e ardenti sguardo si persero nella contemplazione dello splendido panorama.
All’improvviso Enrico si fece pensieroso, quasi irrequieto. Alice notò subito il cambiamento dell’amico e glielo fece notare.
«Cosa c’è, Enrico? Ti sei adombrato».
«Dinanzi una tale maestosità, si può davvero comprendere lo stato d’animo del viandante di Friedrich».
«Sì, è vero. Ma non è questo che ti turba».
«No, non è questo, non è questo…».
«Dimmi tutto, tutto».
Enrico afferrò entrambe le mani di Alice. La guardava dritto negli occhi. Il suo sguardo non era più infervorato, come qualche ora prima, ma dolce, quasi affranto.
«Alice… La temuta fine delle lezioni è giunta e non so che fine faremo. Io tornerò nella mia insignificante cittadina di provincia, tu… tu non lo so. C’è però la possibilità che non ci rivedremo più, è inevitabile. Forse è l’ultima volta che ci vediamo, che viviamo una situazione così intima e io… io devo approfittarne».
Enrico parlava a stento. Si sforzava di risultare chiaro, ma l’emozione lo ostacolava.
«Alice, senza inutili giri di parole… Io… io sono innamorato di te».
Detto questo, il giovane provò un’enorme sensazione di sollievo. Si era liberato del classico, insopportabile peso.
«Io lo so che mi ami…», le rispose in un rapido bisbiglio Alice.
«Io ho sempre provato per te una grande passione, esplosa in amore quel meraviglioso giorno in cui mi hai donato Il mio credo».
«Perché non me lo hai detto prima? Perché? Perché solo ora?».
«Avevo paura di un rifiuto… Avevo paura di sciupare tutto…».
«E ora? Ora non temi più tutto questo?».
«Sì, lo temo… Però…».
«Il timore di non vedermi mai più è ancora più forte».
«Sì, è così. Ti ho amata secondo quella che Hesse considera “la più alta e la più desiderabile condizione della nostra anima”. Ti ho amata senza desiderio . Ma ora… ora… Non ho mai bramato con così tanto ardore le labbra di una donna. Mai…».
Alice chiuse gli occhi. Respirava profondamente. Non era una sprovveduta, quelle parole di Enrico se le aspettava, e ne aveva un gran bisogno.
Il giovane le accarezzò una guancia sussurrandole:
«Alice, dimmi tu cosa devo fare. Come devo comportarmi per non rovinare tutto».
«Io non lo so… non lo so…», mormorò la giovane, seria.
Enrico le sorrise. Continuava ad accarezzarle le pallide e levigate gote.
Dopo qualche secondo di silenzio – nel giardino non c’era infatti nessun altro oltre loro due – il giovane si avventò sulla bocca di Alice. Lei non lo rifiutò.
Enrico e Alice si baciarono per tutta la notte, in quella cornice favolosa, al cospetto della città eterna. Di tanto in tanto si sussurravano parole dolci e amorevoli. Il giovane recitò all’amata una poesia di Baudelaire, Tristezze della luna [3], che conosceva a memoria, contribuendo così a rendere tutto ancora più magico.
I due staccarono le labbra l’uno dall’altra per ammirare l’alba. Per contemplare il sole sorgere sopra i tetti di Roma.
Enrico, accompagnata Alice a casa, decise di non tornare subito nel suo appartamento. Si perse per le strade e i vicoli della città eterna. Camminò molto, moltissimo, ripercorrendo con la memoria la magnifica notte appena trascorsa. Gli capitava di scoprire dei dettagli preziosi che prima non aveva notato. Sul volto aveva l’espressione della beatitudine, nel cuore il rapimento tipico dell’estasi. Una gioia ineffabile, mai provata prima, straordinaria lo avvolgeva e lo alimentava. Gli sembrava di non aver mai vissuto prima di quell’incredibile notte. Alice gli aveva mostrato tutta la bellezza nascosta dell’esistenza, una bellezza rara, che pochi individui hanno la fortuna di conoscere. Una bellezza accecante, che non può essere osservata per più di qualche secondo, come se si osservasse direttamente il sole.
“Ecco cos’è l’estasi. Ecco cos’è il trionfo del sublime…”, pensava tra sé il giovane.
Enrico ritornò a casa solamente nel primo pomeriggio. Uno dei suoi coinquilini gli porse una lettera, da parte di Alice. Il giovane la afferrò, la baciò e se la premette forte sul petto, all’altezza del cuore che gli pulsava impetuoso, quasi volesse uscire fuori.
Accomodatosi sul letto, la aprì con trepidazione e la lesse con avidità.

Enrico,
perdonami.
Perdonami se ti scrivo questa lettera invece di parlarti, ma ho paura che guardandoti negli occhi morirei di quel malinconico dolore che tanto somiglierebbe allo straziante piacere che la scorsa notte ci ha preso con sé.
Grazie per quella notte, la nostra notte, e per tutto quell’universo che siamo riusciti a condividere.
Ma, Enrico mio, come tu stesso hai detto prima di lasciarmi, «in genere tutta la vita è un romanzo, ma solo pochi attimi sono poesia». Ecco, questa mia lettera è la prosa, la parte debole, il ritmo che si perde, l’assonanza delle parole che muore nel niente. Non è nostro il destino e non potrà mai esserlo.
Io non posso più vederti.
Ciò non vuol dire che la scorsa notte, la nostra notte, non sia stata una delle più belle della mia esistenza, non vuol dire che il nostro non sia stato amore. Ti ho amato, credimi, ma di un amore destinato a nascere, consumarsi e morire in un momento.
Mi mancherai.
Già mi manchi, in verità. Mi manchi così tanto che sono tentata in continuazione di uscire da questa stanza, di venirti a cercare e tornare a baciarti.
Non so dove trovo il coraggio di chiedertelo, ma, ti prego, non cercami.
Fa che l’unicità di quella sera in cui ci siamo amati renda il ricordo eterno, lasciamo tutto come è stato. Anche se sappiamo che le nostre esistenze non saranno più le stesse.
Sappi che ogni tua parola mi è rimasta dentro. Leggo Tristezze della luna e immagino la tua voce che trema sotto il suono splendido di quelle parole, che eran tanto di quel poeta francese, quanto tue, quanto mie ora che ti penso così fortemente.
E così fortemente come ti penso adesso ti ricorderò per sempre, credimi.
Addio,
Alice

Enrico, terminata la lettera, comprese ogni cosa. Preparò i bagagli e, in fretta e furia, si diresse alla stazione. Prese il primo treno per la sua cittadina di provincia. Aveva un impellente bisogno: rivedere il mare, il suo mare. E al più presto.

***

Perché Alice aveva deciso di non rivedere più, mai più Enrico? Perché aveva deciso di non bissare quella notte, la loro notte? Perché quella notte, la loro notte, aveva conosciuto la perfezione. E la perfezione la si può raggiungere solamente una volta nella vita. Non avrebbe avuto senso continuare quell’amore e consegnarsi all’abitudine. Quel lungo attimo doveva restare eternamente intatto. Non doveva essere offuscato da innumerevoli momenti insignificanti, comuni, ordinari.
Enrico comprese tutto questo e decise di accettare incondizionatamente la volontà di Alice, pagando tuttavia un prezzo carissimo. Il giovane, dopo aver conosciuto l’estasi, sprofondò nell’oblio, in uno stato di profonda e cupa depressione. Senza Alice il mondo tornò a essere un’immensa e fetida pattumiera, nient’altro. Gli uomini tornarono a fargli ribrezzo e l’esistenza tornò a essere solamente un lungo e inestinguibile incubo.
Il tarlo del suicidio tornò a tormentarlo, ogni giorno di più, a roderlo nel profondo. “È solamente questione di settimane, al massimo di mesi”, si ripeteva in continuazione tra sé. Aveva conosciuto l’estasi, che senso aveva continuare a vivere? Era finita per lui. Non c’era più scampo all’inevitabile epilogo.
“Non è forse più dignitoso uccidersi, manifestando così la propria volontà e la propria libertà, piuttosto che perire per mano del caso, di un male assurdo oppure della vecchiaia?”, si domandava spesso, trovando a un tale quesito una risposta sempre affermativa.
Un paio d’anni dopo la separazione, Enrico, per puro caso, scoprì che Alice si era laureata. Sentì la necessità di congratularsi con lei.
Le inviò un messaggio breve.

Cara Alice,
congratulazioni per la laurea. «Vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal» [4].
Enrico

La giovane si limitò a ringraziarlo.
Qualche giorno dopo Simone contattò di nuovo Alice. Desiderava avere sue notizie. Il suo amore si era placato, ma non era certo scomparso. Il suo era un amore rassegnato.
Lo stesso giorno Enrico ricevette una chiamata.
«Pronto? Chi è?».
«Sei Enrico?».
«Sì. Lei chi è?».
«Sono il ragazzo di Alice. Smettila di importunarla».
«Sì, sì, stai pure tranquillo».
Dopo quella breve conversazione, Enrico scoppiò in una violenta risata. Immediatamente scrisse ad Alice. Poche righe cariche di veleno e odio.

Cara Alice,
proprio non immaginavo che avresti deciso di passare il resto della tua vita accanto a un troglodita.
Non ti ho mai davvero capita…

La risposta della giovane non si fece attendere. Alice non tentò neppure di celare il suo risentimento.

Caro Enrico,
ti parlerò sinceramente. Non credo che il tuo ultimo messaggio ti renda onore. Non è certo un comportamento degno di nota quello di etichettare come “troglodita” una persona che neanche conosci, basandoti peraltro su una personale concezione della vita che da questo tuo giudizio si rivela essere quanto mai banale e stereotipata. Non sapevo nulla delle intenzioni di Alessio e sono venuta a conoscenza della sua volontà di chiamarti solo nel momento in cui vi eravate già sentiti. Non starò qui a parlarti del mio essere d’accordo o meno con il suo gesto, perché in fondo ritengo che tali questioni riguardino solamente me e lui. So però che Alessio non è stato in alcun modo offensivo nei tuoi confronti, né si è espresso con epiteti dispregiativi, come quello che tu, non so davvero per quale motivo, ti sei sentito in libertà di utilizzare nell’ultimo messaggio. Quella persona che tu giudichi senza titubanza, benché ti sia del tutto sconosciuta, è un ragazzo intelligente e sensibile. E ti dico questo non perché io credo di dover rendere conto a te dell’uomo con cui ho deciso di passare la mia vita, ma perché mi sono sentita profondamente offesa dalle tue parole che, tra l’altro, a questo punto avresti potuto riferire direttamente a lui, invece di inviare un messaggio a me. Detto ciò, Enrico, spero che tu comprenda con quanta buona fede io ti scriva, sperando con tutto il cuore che tu possa un giorno trovare quella serenità che deriva, purtroppo, non da una idilliaca felicità senza macchia, ma dal coraggio di fare della vita la nostra concreta poesia, invece che fare di una poesia la nostra vita, vagheggiata ma mai, mai vissuta.
Augurandoti il meglio,
Alice

Leggendo la risposta di Alice, Enrico provò una soddisfazione enorme, subdola e cattiva. Sghignazzava a denti stretti, come un piccolo demonio e pensava:
“In un’altra epoca, quel ragazzo così ‘intelligente e sensibile’ lo avrei sfidato a duello. Eh, eh, eh… Lo avrei ucciso quell’ignorante troglodita. Eh, eh, eh».
Si compiaceva della sua malignità. Perché quando si è perduti nell’oblio, non si vuole uscirne più.

NOTE

[1] È il poemetto che apre Lo spleen di Parigi:

«Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?
– Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
– I tuoi amici?
– Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto.
– La patria?
– Non so sotto quale latitudine si trovi.
– La bellezza?
– L’amerei volentieri, ma dea e immortale.
– L’oro?
– Lo odio come voi odiate Dio.
– Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero?
– Amo le nuvole… Le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!»

[2] Sono le due terzine del sonetto Non son chi fui; perì di noi gran parte di Foscolo:

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avvanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
la fame d’oro, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

[3] È la poesia numero LXV dei Fiori del male:

Stasera, la luna sogna con più abbandono,
come una bella donna che, abbandonata sui cuscini,
prima di addormentarsi accarezza
i seni con mano distratta e leggera.

Ecco, sul dorso lucido di molli valanghe,
morente s’abbandona a lunghi deliqui
e volge gli occhi a bianche visioni
che salgono nell’azzurro come fioriture.

A volte, nel suo ozioso languore, fa cadere
una lacrima furtiva sulla terra,
e allora un pio poeta, nemico del sonno,

raccoglie nel cavo della mano la pallida lacrima
dai riflessi iridati come un frammento d’opale
e la ripone nel suo cuore lontano dagli occhi del sole.

[4] Sono i versi 61-62 dell’Ultimo canto di Saffo di Leopardi:

Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu, che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care,
mentre ignote mi fûr l’Erinni e il Fato,
sembianze agli occhi miei; giá non arride
spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva,
quando per l’etra liquido si volve
e per li campi trepidanti il flutto
polveroso de’ Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove, a noi sul capo
tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
fiume alla dubbia sponda
il suono e la vittrice ira dell’onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi! di codesta
infinita beltá parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o Natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta; e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sí torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
de’ piú verd’anni! Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze, eterno regno
die’ nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtú non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
rifuggirá l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderá del cieco
dispensator de’ casi. E tu, cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perîr gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni piú lieto
giorno di nostra etá primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
han la tenaria diva,
e l’atra notte, e la silente riva.

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