Gli sconfitti – La rinascita

«Ogni giorno mi chiedo perché tu faccia tutto questo per me».
«Perché hai talento. E buttare il talento al cesso come hai fatto tu in questi anni non è giusto, è da imbecilli e da incoscienti, ma soprattutto da imbecilli. Tu sei stato forgiato dalla mano del genio. Sei un uomo fortunato, ma ancora non te ne sei accorto. Ma non lo faccio solo per questo. Lo faccio anche per salvare una vita».
«E se io non volessi salvare la mia vita?».
«Non parlavo di te, ma di tua figlia. È la vita di tua figlia che voglio salvare. Non ha una madre, che abbia almeno un padre».
«Ho notato una cosa».
«Cosa?».
«Ogni volta che parli del talento ti brillano gli occhi. Ogni volta».
«Sì, è vero, mi commuovo».
«Perché?».
«Perché per molti anni non ho desiderato altro che avere talento. Ed ero davvero convinto di averne. Fortunatamente qualcuno mi ha fatto capire in tempo che ne ero del tutto sprovvisto. Così ho dedicato la mia esistenza a quelli che, come te, il talento ce l’hanno davvero».
«Paolo, ti sarò sempre grato. Mai nessuno, eccetto la povera Bianca, si era sbattuto così per me. Mai nessuno aveva creduto così tanto in me».
«Non abbiamo ancora fatto niente Raffaè. La mostra è ancora in allestimento e manca ancora qualche giorno all’udienza per l’affidamento di tua figlia».
Raffaele era un giovane artista, un pittore di belle speranze. A vent’anni, all’Accademia delle Belle Arti, aveva conosciuto Bianca, e se ne era subito innamorato. La giovane, altrettanto invaghita di Raffaele, aveva ricambiato il sentimento, e dopo un anno di relazione, era nata una figlia.
La povera Bianca morì pochi giorni dopo a causa di alcune complicazioni post parto, e Raffaele sprofondò immediatamente in uno stato di cupa e morbosa depressione. Si aggrappò all’alcol e ben presto divenne un alcolizzato. Ogni settimana vendeva, o meglio, svendeva una sua opera per procurarsi una bottiglia nella quale annegare le sofferenze. A causa della sua tremenda dipendenza, gli assistenti sociali gli strapparono la bambina, affidandola ai genitori della madre. Questa spaventosa circostanza non fece altro che peggiorare l’orribile stato del giovane Raffaele. Non esisteva un attimo della giornata in cui non fosse ubriaco. Trascorreva quasi tutte le sue giornate tappato dentro casa, come un topo, bevendo, bevendo e ancora bevendo. I suoi genitori tentarono in tutti i modi di riportarlo sulla retta via, senza però riuscirci. Più e più volte si appellarono alla memoria della defunta amata, esortando il figlio perduto a ristabilirsi, ad andare a trovarla al cimitero, di tanto in tanto. Non servì a niente. Neppure l’esistenza della figlia, che vedeva di rado e solo per pochi momenti, lo convinceva a cambiare vita. Anzi, il volto paffutello e gaio della bambina non faceva altro che ricordargli l’amata oramai morta, facendolo sprofondare ancora più in basso, nelle tenebre dell’alcolismo, nelle quali è impossibile distinguere qualcosa, talmente sono fitte.
Raffaele visse in questo spaventoso incubo per tre, lunghissimi e terribili anni. Le cose cambiarono quando, un giorno, venne a bussare alla sua porta Paolo, un gallerista al quale era capitato sotto mano un dipinto del giovane.
«Mi chiamo Paolo V., sono un gallerista. Questa tela è sua?».
«Sì. Questa fottuta tela è mia. Avevo giusto bisogno di qualcosa per attizzare il fuoco… Che cazzo vuoi da me?».
«L’ho acquistata per pochi spiccioli, per una miseria».
«Allora l’hai pagata per quello che vale».
«Beh, secondo me, vale molto, ma molto di più. Secondo il mio modesto parere vale una somma enorme, da capogiro, una vera fortuna».
«E chi se ne frega. Ora vattene».
«Senta, Raffaele, io non so che problemi lei abbia…».
«Sono un alcolizzato! Ecco qual è il mio fottuto problema!».
«Volevo dire… Qualunque sia il suo problema, non mi interessa, io non mi muoverò da qui fin quando non sarà più ragionevole e… sobrio».
A quel punto Raffaele si scagliò furioso contro il gallerista, con l’intento di colpirlo. Ma era così ubriaco – ed era appena mezzogiorno – che inciampò su di una bottiglia vuota e cadde a terra sbattendo violentemente la testa. Perse i sensi. Paolo lo depose sul letto e aspettò che riprendesse conoscenza. Avvenne dopo circa un’ora.
«Tu… sei ancora qui?», biascicò a stento, mangiandosi persino qualche lettera, il giovane pittore.
«Gliel’ho detto. Non mi muoverò da qui fin quando non mi darà retta».
«Ma cosa… cosa cazzo vuole da me, eh? Cosa cazzo vuole da un miserabile?».
«Voglio organizzare una sua mostra personale. Lei ha un talento sconfinato, immenso… Deve ritenersi molto fortunato».
«Io non voglio… no, io non voglio… Io voglio solo bere… bere fino a scoppiare, bere fino a morire…».
«Beh, di questo passo, la sua morte non è molto lontana. Poco importa, lei non berrà più. E io, glielo ripeto per l’ennesima volta, non mi muoverò da qui fin quando lei non cambierà idea».
«Eh, eh, eh… Dovrai aspettare molto allora. Ti consiglio di trasferirti qui…».
«Non lo escludo affatto».
Paolo era un gallerista di cinquantacinque anni. Fino ai venticinque era convinto di avere un grande talento artistico, ma, purtroppo per lui, non era così. Qualcuno glielo fece notare così brutalmente che lui se ne accorse. Divenne allora un gallerista, piuttosto noto e apprezzato. Aveva un ottimo fiuto. Dal primo istante in cui i suoi occhi esperti e perspicaci si erano posati sul dipinto di Raffaele, se ne era innamorato. Era venuto a conoscenza della tragica situazione in cui riversava oramai da tre anni quell’artista disgraziato, dimenticato da Dio, e aveva deciso di agire. Sapeva anche che Raffaele aveva una piccola figlia di cui non si curava, più per disperazione che per disprezzo o cattiveria, e il suo scopo era quello di agire anche sul lato umano del pittore. Voleva convincerlo a sconfiggere la sua dipendenza dall’alcol e a riprendersi la sua bambina.
Paolo dovette lottare molto contro l’indomabile e bellicoso Raffaele, ma dopo giorni e giorni di grida, insulti e anche qualche spintone, riuscì ad avere la meglio. La volontà di Paolo finì per schiacciare la nolontà di Raffaele.
Il gallerista convinse il pittore a trascorrere qualche settimana in una comunità impegnata nel recupero degli alcolisti. Lo accompagnò lui e lui stesso andò a riprenderlo dopo qualche mese.
Raffaele era per Paolo oramai un figlio. Quel figlio che non aveva mai voluto, perché troppo impegnato nel lavoro. Quel figlio di cui ora, sulla soglia della vecchiaia, iniziava a sentire il bisogno.
«Che gioia rivederti! Ti trovo in splendida forma».
«Addirittura? Certo, rispetto alle condizioni pietose in cui mi trovavo settimane fa…».
«Non bevi da quando sei entrato?».
«Non bevo da quando sono entrato…».
«Hai visto? Avevo ragione io».
«Sì. Lì dentro mi sono reso conto dello stato misero, schifoso in cui mi trovavo. Mai più, guarda. Mai più».
«Hai pensato molto a Bianca e a tua figlia?».
«Ogni secondo. Ogni singolo e sacrosanto secondo. Il loro ricordo mi ha aiutato, come sono convinto che mi abbia aiutato parecchio allontanarmi per un po’ dalla tela e dai pennelli».
«Hai trovato soggetti interessanti?».
«Uno solo. Si tratta di una donna pressappoco della tua età. Non riesce a smettere di bere. La famiglia l’ha dimenticata. Beve sempre, beve in continuazione. Di nascosto, ma anche davanti ai medici, prendendosi gioco di loro, sfottendoli. Gli beve in faccia e li insulta, ridendo a squarciagola. Voglio ritrarre il suo terribile, spaventoso volto gonfio, butterato, livido, deformato. Quello è il volto dell’alcol. Il volto dell’alcol con lo sguardo della dipendenza. Uno sguardo sempre assente, perso nel vuoto eppure penetrante, cattivo, sordido, subdolo. Sarà questo il soggetto del mio prossimo quadro».
«Magnifico e terribile al tempo stesso».
«Già. Sarà il mio monito…».
«Ho parlato con i genitori di Bianca, proprio ieri. Gli ho detto come stanno le cose. Sono felici per te. Domani protrai trascorrere l’intera giornata con tua figlia. Ne sei contento?».
«Sì».
«Dove vuoi andare?».
«Ah, mi fai anche da autista?».
«Non hai la patente…».
«Andiamo al cimitero, da Bianca. Da quando è morta, non ho mai visitato la sua tomba».
«Poi vuoi tornare a casa?».
«No. Voglio andare a trovare i miei genitori. Devo farmi perdonare tante, troppe cose da loro. Sono sempre stati così benevoli, generosi e comprensivi con me e io… io non ho fatto altro che tormentarli».
«Saranno felici».
«Lo spero».
«Dunque, possiamo dire che oggi, due marzo, inizia per te una nuova vita. È la tua rinascita».
«Sì, la mia rinascita… Grazie Paole’».
Raffaele sembrava davvero rinato. Aveva ritrovato la sua giovinezza perduta, l’essenza più profonda e autentica della sua arte, l’amore per la figlia e per i propri genitori.
Nei due mesi successivi Raffaele si diede molto da fare. Vedeva tutti i giorni la figlia, trascorreva con lei almeno un paio d’ore, di giubilo e di spensieratezza. La gioia spontanea e naturale della bambina si trasmetteva inevitabilmente nell’animo del padre. Pensava molto a Bianca, ma il ricordo dell’amata scomparsa non era più la causa di sentimenti come l’odio e la rabbia. Il ricordo di Bianca gli ispirava un amore immenso, straordinario, che cresceva di giorno in giorno nel suo cuore ritornato a battere con regolarità e tranquillità. Il giovane si recava al cimitero almeno quattro volte alla settimana.
Raffaele si impegnò a recuperare tutti i quadri venduti qua e là in quegli anni. Li aveva recuperati tutti ed erano pronti per comparire nella sua prima mostra personale allestita con maniacale cura da Paolo.
«Vedrai, grazie a questa mostra il tuo talento diverrà finalmente noto a tutti», gli ripeteva sempre il gallerista animato da un grande entusiasmo.
Inoltre, in questi due mesi così intensi, Raffaele aveva lavorato a quello che considerava il suo capolavoro: Volto dell’alcol con sguardo della dipendenza. Un dipinto straordinario, impressionante, dal quale emergeva, dilagando nell’animo dell’osservatore colpito, un’eccezionale sofferenza. Era il volto di una creatura umana perduta per sempre, irrimediabilmente. Ammirandolo Raffaele provava sempre una certa inquietudine.
«Mi sembra di aver racchiuso in questa tela tutta la merda della mia anima», aveva una volta confessato a Paolo che osservava l’opera estasiato, rapito.
L’udienza per l’affidamento della figlia e l’inaugurazione della mostra erano previsti per lo stesso giorno. L’udienza alle dieci del mattino, l’apertura della mostra alle sedici. E si annunciavano due successi, due trionfi. Gli assistenti sociali erano rimasti favorevolmente colpiti da Raffaele, dal suo radicale mutamento. Per quanto riguardava la mostra invece, Paolo, utilizzando con sapiente maestria tutta la sua esperienza e il suo acume, era riuscito ad assicurarsi la presenza di alcuni importanti critici e di alcuni potenziali acquirenti.
Raffaele e Paolo trascorsero la sera della vigilia dei due fondamentali eventi insieme. Il giovane era pensieroso, quasi distratto. Il gallerista era invece teso, anche se piuttosto eccitato. Pregustava già il trionfo di Raffaele in entrambe le delicate circostanze, facendoglielo presente con grande entusiasmo e altrettanto trasporto. Il giovane pittore gli rispondeva con discreti sorrisi. I molti pensieri che nelle ultime ore si erano addensati nella sua mente lo rendevano taciturno, meno loquace del solito. Paolo non ci badava troppo, la reputava una disposizione ovvia, normale. Del resto, il giorno seguente si sarebbe deciso moltissimo, se non addirittura tutto, della vita del pittore.
I due amici si separarono intorno alla mezzanotte, abbracciandosi calorosamente. Raffaele sprofondò subito nel letto, tentando di prendere sonno il prima possibile. Sentiva formarsi dentro di sé uno sgradevole vortice d’angoscia dal quale non voleva essere risucchiato.
Raffaele non riusciva ad addormentarsi. Era turbato da qualcosa, qualcosa di velenoso e subdolo, che sentiva crescere nelle sue viscere. Si girava e si rigirava nel letto senza trovare un solo istante di calma, di pace. Passò così un paio d’ore. Improvvisamente venne folgorato, quasi incenerito da qualcosa che intravide nella sua stanza: uno sguardo. Uno sguardo perfettamente distinguibile, nonostante il buio pesto. Uno sguardo brillante, lancinante e, soprattutto, terribile, che il giovane conosceva bene. Come diavolo c’era finito in camera da letto quel maledetto quadro? Proprio quel quadro, l’ultimo, nel quale Raffaele aveva riportato tutta la sporcizia della propria anima. Ma si era davvero liberato di tutta quella immondizia? Forse sì… Forse no. Questo pensiero straziava il giovane pittore, che si dimenava come un ossesso nel letto, scuotendo le lenzuola e il piumino. Raffaele intravide un bagliore ai piedi della tela. Scrutò con attenzione, aiutato dai deboli raggi lunari che filtravano dalle fessure delle persiane serrate. Una bottiglia, già, una bottiglia di whisky. Il giovane pittore, alla vista dell’alcol, trasalì. Provò un lungo, lunghissimo e raggelante brivido di terrore. Preda di un’irrefrenabile desiderio di bere, di ubriacarsi fino a perdere conoscenza, si avventò con uno scatto feroce sulla bottiglia, la afferrò e, a stento, tanto grande era la sua foga, la aprì. La bevve tutta in un unico sorso, senza prendere fiato neppure per un solo secondo. Mandata giù l’ultima goccia di liquore, cadde istantaneamente in un deliquio molto simile alla morte.
Raffaele riaprì gli occhi alle cinque del mattino. Un nuovo sole stava per sorgere. La sua fronte, che batteva forte, all’impazzata, era madida di sudore. Si guardò attorno spaesato, come se avesse appena riacquistato i sensi e tentasse di capire dove si trovava. Si guardò attorno smarrito. Con lo sguardo inquieto cercava il quadro, la bottiglia vuota. Nella camera da letto però non c’era niente, niente. Adagio Raffaele si alzò dal letto e si stirò. Gli sembrava di avere la febbre. Si diresse subito nello studio. La tela era lì, non si era mossa. Era ferma, immobile sul piedistallo. In tutta la casa non c’era traccia della bottiglia di whisky.
«Quindi… quindi è stato solo un fottuto incubo. Solo un fottutissimo incubo… Fanculo…», sussurrò Raffaele guardandosi allo specchio e scoppiando in una fragorosa risata liberatoria. In vita sua non aveva mai riso con tanta sincerità, con tanta beatitudine.
In quei mesi Raffaele si era davvero liberato di tutta la merda della sua anima. Era rinato davvero, per non morire mai più.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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