Gli sconfitti – Raccolta di racconti – Il rimorso

“Gli sconfitti” è un microcosmo. Una raccolta di racconti che costituisce un piccolo universo a sé stante, all’interno del quale si rincorrono numerose le vicende degli individui che lo abitano. Vicende inventate, ma possibili, al centro delle quali vi è l’uomo, l’essere sconfitto per eccellenza.

IL RIMORSO

Pioveva forte. Veniva giù a secchiate. Innumerevoli gocce di pioggia precipitavano pesanti, veementi, ininterrottamente. La visibilità era scarsa, ridotta al minimo, e le forme sulla strada si distinguevano appena. Luca procedeva con prudenza. Curvo in avanti, appiccicato al volante, con una mano ripuliva il vetro appannato. Il climatizzatore era fuori uso. Luca tornava finalmente a casa, dopo la solita, monotona, sfiancante, deprimente ed autodistruttiva giornata di lavoro.
All’improvviso un tonfo sordo. Nient’altro. Un brivido terrificante, di quelli che si provano non più di una o due volte nella vita, percorse la schiena piegata di Luca, raggelandolo. Un funesto presagio, poi solo paura. Una sconfinata ed ingestibile paura.
Nonostante il forte ed inequivocabile colpo, Luca non si arrestò, non ne ebbe il coraggio, ma accelerò. Fuggì. La mente gli si annebbiò e non fu più in grado di pensare a nulla se non alla fuga.
Luca sapeva. Luca aveva immediatamente compreso ogni cosa, ma non poteva fermarsi, non ci riusciva. Fu il timore a trascinarlo via con forza, contro la sua volontà, dal luogo dell’impatto, e non poté opporre resistenza.
“Io… Io… Io ho…”, balbettava tra sé come inebetito, annientato, non riuscendo a dire né a pensare altro.
Luca si lanciò verso casa. Parcheggiò l’auto in garage – oh, come benedisse in quel drammatico momento di possedere un garage! – senza neppure degnarla di uno sguardo. Del resto, non ce n’era bisogno. Lui sapeva.
Luca salì in fretta le scale, a due a due, per sua fortuna senza incontrare nessuno degli altri inquilini del palazzo. Con enorme fatica, le mani gli tremavano come mai prima, riuscì ad aprire il portone. Con altrettanta fatica riuscì a chiuderlo a chiave dietro di sé. Aveva il fiatone, i suoi polmoni devastati da decenni di fumo non erano abituati ad un tale sforzo fisico, acuito dall’esaurimento nervoso. Sudava. Senza neppure accendere la luce della sua tana – così Luca definiva la propria abitazione, avendo una così scarsa considerazione di se stesso da non credere di essere migliore di un topo -, si diresse nella sua camera, procedendo a tastoni nel fitto buio del piccolo appartamento. Con un piede urtò un vaso che cadde rovinosamente a terra, frantumandosi in centinaia di minuscoli pezzetti. Non se ne curò. Luca si gettò nel letto senza disfarlo e senza liberarsi del cappotto fradicio. Si rannicchiò in posizione fetale e cadde all’istante in un sonno profondo, ma tormentato, mentre fuori infuriava il temporale e i lampi, la cui luce spaventosa filtrava dalle fessure delle persiane chiuse, illuminavano a giorno. Lo assalì la febbre, e con essa il delirio. Una infinita schiera di demoni deformi, orribili, schifosi gli si accalcarono tutt’intorno circondandolo, accusandolo.
«Tu, tu, tu sei un assassino!», gli gridavano in faccia con la bava alla bocca. Luca, oppresso e spaventato dalla presenza di quegli inquisitori mostruosi si dimenava, sbracciava, provava persino a colpirli, tentando così di liberarsi di loro, ma erano troppi, non se ne vedeva la fine, ed i suoi colpi andavano tutti comicamente a vuoto, suscitando l’ilarità e lo scherno di quei demoni terrificanti che urlavano e ridevano a crepapelle, tenendosi la pancia. Quei diavoli restavano lì, sembravano anzi moltiplicarsi ogni secondo di più e lo opprimevano, lo asfissiavano, lo soffocavano. Luca non aveva più aria, per quanto si sforzasse gli era impossibile respirare. E quando le energie lo abbandonarono del tutto, egli precipitò nel vuoto, in un tenebroso e profondo oblio, tra le ingiurie irripetibili e le risate sguaiate dei demoni.
Quando Luca riaprì gli occhi si stupì di non ritrovarsi tra le fiamme dell’inferno. Gettò uno sguardo all’orologio che portava al polso: erano le nove. Aveva dormito male, malissimo, ma molto più del consueto. Dalle persiane filtravano nell’appartamento i raggi del sole mattutino, obliqui, e in essi fluttuava leggera la polvere. La testa gli doleva, da morire. Come se un chiodo gli venisse conficcato ogni secondo di più in fondo al cranio, fino a raggiungere il cervello. Almeno, magra consolazione, non aveva più la febbre. Con indosso ancora gli abiti del giorno precedente, e persino il cappotto oramai asciutto, Luca si alzò con grande difficoltà dal letto, emettendo un sottile, ma lungo gemito di dolore, e si diresse in cucina. In fretta ingerì un potente antidolorifico, senza prima mangiare nulla come invece raccomandava l’inutile foglio illustrativo, con lo scopo di placare l’insopportabile dolore causato dall’emicrania galoppante, martellante. In piedi, immobile nel mezzo della stanza, attese l’effetto del medicinale, fissando il vuoto, quello stesso vuoto nel quale era precipitato durante il sonno. Dopo una decina di minuti d’attesa, il miracoloso antidolorifico fece effetto, e Luca uscì di casa, diretto in garage. Qui esaminò la sua auto, ammaccata proprio sulla parte anteriore. Contemplò per qualche istante quella profonda deformazione della lamiera e sentì formarsi dentro di sé, proprio all’altezza del petto, un incredibile, insostenibile ed intollerabile peso. Allora afferrò la bicicletta, una Graziella del nonno defunto vecchia e arrugginita, e si lanciò fuori, in strada. Il cielo era terso, non una sola nube turbava quell’azzurro esuberante, tanto esuberante da risultare disgustoso. La luce del sole era ovunque, illuminava ogni fottuta cosa. Il forte temporale del giorno precedente era solo un brutto ricordo.
Luca non aveva che un pensiero in testa: costituirsi. “Questa storia deve finire ora. Ho aspettato troppo. Ho sofferto troppo”, si ripeteva tra sé pedalando.
Tuttavia, giunto dinanzi al commissariato di polizia, fu immobilizzato, letteralmente, da un nuovo ed inatteso pensiero, che inondò di speranza il suo animo malconcio, fatto a pezzi.
“E se non avessi investito proprio un uomo? Se avessi investito solo un animale, un grosso animale, che so, un cane, oppure un oggetto trasportato sulla strada dalla forte pioggia? Potrebbe essere… Del resto, non ho visto nulla, non ho capito nulla”.
Luca, animato da una nuova forza, rinvigorito da quella improvvisa e tutto sommato realistica speranza, cambiò meta e svoltò con la bicicletta nella direzione del luogo dello schianto. Doveva assolutamente, e al più presto, verificare di persona come fossero andate davvero le cose. Doveva scoprire se considerarsi un assassino oppure no.
“Forse… Forse tutta quella paura è stata solo il frutto del delirio febbrile cui ero preda già in macchina, e l’incubo figlio di una suggestione generata da una supposizione errata”.
Tuttavia, giunto sul posto, Luca fu di nuovo afferrato dall’angoscia e dalla disperazione. Sul ciglio della strada erano adagiati diversi mazzi di fiori variopinti. Troppi mazzi di fiori perché si trattasse solamente di un cane.
Lentamente, tentando di apparire calmo e lucido, Luca si avvicinò a due vecchi signori, due pensionati di una settantina d’anni, seduti su di una panchina vicina al luogo dell’incidente. Voleva sapere da loro che cosa fosse accaduto.
«Buongiorno. Scusate il disturbo. Cos’è successo qui?».
«Ieri sera qualche mostro ha investito una donna ed è scappato», gli rispose uno dei due anziani.
«E la poverina come sta?», gli domandò Luca raggelando dalla testa ai piedi.
«È morta sul colpo».
Luca dovette faticare non poco per dominarsi. Quelle lapidarie e terribili parole lo avevano trafitto da parte a parte, lo avevano squarciato come il macellaio squarcia un maiale. Lottò contro se stesso per non accasciarsi a terra. Non poté però impedire al pallore di impossessarsi del suo volto scavato all’inverosimile e solcato da due occhiaie nere tanto profonde e pronunciate da sembrare tatuate.
«La conosceva?», gli chiese l’altro signore, colpito e soprattutto incuriosito dall’improvviso pallore di Luca.
«No, non la conoscevo… Voi?», balbettò l’assassino quasi perdendo l’equilibrio.
«E come no! Era una nostra vicina di casa. Sa, abitiamo proprio qui dietro. Povera disgraziata, così giovane». Entrambi i pensionati scossero teatralmente le teste canute.
«Quanti… Quanti anni aveva?», domandò Luca afferrato da una irresistibile ed autolesionista voglia di conoscere almeno un poco la propria vittima.
«Quaranta, tondi tondi, e due figli. Il maschietto di dieci anni, la femminuccia di sette. Ah, quel vigliacco. Bastardo… Cuore di cane… È stato sicuramente un rumeno. Sono sempre loro, ubriaconi… E non ci sono testimoni! Nessuno, ma proprio nessuno ha visto niente con quel tempo maledetto. Ah, fortunata bestia… Eh, ma il rimorso, il rimorso… Il rimorso lo divorerà, lo farà crepare!».
Senza dire una sola parola, Luca scappò via di corsa, pedalando forsennatamente come un ciclista in volata.
Colpiti dal singolare comportamento di quell’uomo enigmatico, a loro sconosciuto, i due pensionati si scambiarono una significativa e sospettosa occhiata.
«Secondo te chi era quello? Hai visto come ha reagito male? Prima è diventato tutto bianco come un cadavere, poi è fuggito a perdifiato».
«Secondo me era l’amante della poveretta».
«L’amante?».
«L’amante, l’amante…».
«Ma perché, scusa, aveva un amante?».
«Secondo me sì. Non hai notato anche tu come negli ultimi mesi fosse diventata raggiante? Con il marito, poi, non scambiava più una parola».
«Ripensandoci, in effetti…».
Intanto Luca, al culmine della disperazione, si era fiondato in spiaggia. Senza cura abbandonò la bicicletta a terra e si lasciò andare di peso sulla sabbia ancora umida e rappresa. Il freddo vento di tramontana, tagliente come una lama, lo rianimò un poco. Con le lacrime che gli inondavano gli occhi neri, osservava l’orizzonte.
“Io… Io… Io sono un assassino! Io ho stroncato la vita di una povera ed innocente madre! Io! Quelle due creaturine come faranno ora? Oddio… Immagino l’immenso dolore che strazia i loro piccoli cuoricini… Ed è tutta colpa mia! Ah, è terribile! Come diavolo è potuto succedere? Cosa devo fare? Costituirmi, ecco cosa devo fare. Andare alla polizia e consegnare la mia testa alla giustizia. Devo confessare tutto, tutto… Questa storia deve finire oggi stesso! Ma… Non so… Non so se ne ho il coraggio… Cazzo… L’omissione di soccorso… Ah, come tutto era bello ieri, prima di quel maledetto momento! Tutto era bello, così semplice, così leggero… E me ne rendo conto solo ora, solo dopo una simile disgrazia… Perché? Perché proprio a me? Perché proprio io? Io che non ho mai fatto male a nessuno, neppure ad una mosca… Io che sono sempre, sempre stato consapevole della mia insignificanza, della mia nullità e non mi sono mai sentito migliore neppure di un topo di fogna… Perché? Ah, fottuto caso! Fottuta pioggia! Fottuto climatizzatore rotto! Fottuta paura! Questo strazio deve finire… Oggi stesso, subito deve finire. Immediatamente! Non posso sopportare tutto questo, no, non posso. Devo costituirmi e confessare la mia colpa, il mio delitto, ora! Ma non so se sono abbastanza forte… Il coraggio è sempre stato una chimera per me! Sempre! Un ideale irraggiungibile. Quella poverina… Ah, due figli ora soli! Due orfani… Sfortunata madre, come hai fatto a non vedermi? Eppure andavo piano. Disgraziata donna, immagino il tuo volto sfigurato dalla morte, ricoperto di sangue… Oddio mio, è terribile! Sono morto anch’io con lei… Sì, sono morto anch’io… Ed il rimorso… Il rimorso già mi divora, proprio come ha detto quel vecchio, già mi annienta! Ah, due orfanelli… Cosa… Cosa può mai essere una cella, per quanto angusta, cosa può mai essere la privazione di una libertà inutile, fasulla, in confronto al rimorso che rode l’anima, che pesa proprio qui, sul groppone, come un immenso macigno e mi trascina giù, giù in un baratro senza fine, all’inferno? Ah, spietati demoni, avevate ragione, sono un assassino! Schifosi diavoli, eccomi! Sono morto… Anch’io sono morto… E ieri era tutto così bello… Ieri era tutto così semplice, così leggero…”.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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