Gli sconfitti – Il medico e il contadino

Il medico, in piedi, spalle al paziente, osservava la lastra illuminata e scuoteva la testa. Giovanni, di gran lunga più incuriosito che preoccupato, osservava a sua volta, strizzando gli occhi, i suoi polmoni stilizzati. Da due mesi ormai lo tormentava una tosse insistente, inestinguibile, che lo privava persino del sonno. Una tosse che, qualche giorno prima, durante una visita, il medico aveva definito «preoccupante», prescrivendo una lastra per approfondire la situazione.
Dopo diversi minuti di attenta analisi, il medico tornò a sedersi alla scrivania. Continuava a scuotere la testa. Giovanni, immobile davanti a lui, attendeva il verdetto. Di tanto in tanto era scosso da violenti colpi di tosse. Il medico sembrava meditare, riflettere, sembrava scavare silenziosamente dentro di sé per trovare le parole giuste, fissando con ostinazione un punto nel vuoto attraverso gli occhiali sottili.
«La situazione è piuttosto grave», proferì infine con un tono di voce asciutto.
«Eh, dottore, lo avevo intuito. Dall’insistenza della tosse e dal modo in cui lei scuoteva la testa osservando la lastra», rispose Giovanni con estrema calma, tossendo subito dopo aver terminato la frase.
Il medico pesava accuratamente le parola una per una. Si sforzava di sceglierle con cura, tentando di risultare chiaro e, al tempo stesso, il meno possibile brutale.
«Signor Giovanni, lei ha un tumore».
«Lo immaginavo».
«È in uno stato avanzato ed è maligno», sentenziò il medico pentendosi subito dopo di quanto detto. Avrebbe voluto parlare con meno ferocia, ma non c’era riuscito.
«Capisco», disse Giovanni annuendo. «Quanto tempo mi resta?», chiese poi al medico con una apparente noncuranza che sbalordì lo specialista.
«Innanzitutto, deve dimostrarsi forte», iniziò il medico tentando di sfuggire al crudo e spietato quesito, «deve essere coraggioso, deve combattere contro la malattia, opporsi con lo spirito giusto. Soprattutto non deve abbattersi, non deve rassegnarsi. E deve subito smettere di fumare».
«Dottore, mi perdoni. Comprendo benissimo, mi creda, quanto in simili circostanze il suo sia un mestiere ingrato, ma la prego di rispondermi, di essere sincero. Quanto tempo mi resta?».
Il medico, messo alle corde e visibilmente sotto pressione, si tolse gli occhiali, chiuse gli occhi e iniziò a massaggiarsi, con il pollice e con l’indice, le palpebre. Piccole goccioline di sudore gli inumidirono la fronte ampia. Dovette compiere un’inaudita violenza contro se stesso per poter rispondere alla scomoda domanda di Giovanni.
«Generalmente… A un paziente nelle sue stesse condizioni… Diciamo… Restano dai quattro ai sei mesi di vita».
«Credevo meno», mormorò Giovanni quasi sollevato.
«Con le nuove cure e con la sua forza di volontà possiamo… Quantomeno provare a…».
«Mi perdoni, dottore», lo interruppe il malato, «mi perdoni, ma il mio destino è oramai segnato».
«Signor Giovanni, io capisco il suo attuale stato d’animo, ahimè, non è la prima volta che ho a che fare con una persona nelle sue stesse condizioni, ma la scienza ogni giorno progredisce, ogni giorno fa passi da gigante, e se lei affronterà la cura con determinazione e convinzione, non escludo che possa farcela. In qualche modo…».
Dalle parole, tutt’altro che convincenti, del medico, traspariva una sincera emozione, un autentico trasporto. Giovanni lo ascoltava tossendo copiosamente e sorridendo mestamente, ma con enorme dignità. Nel suo animo non c’era spazio per la disperazione.
«Signor Giovanni, forse… Forse non è il momento opportuno per parlarne. Immagino che non possa esserlo. Facciamo così, torni domani mattina, sono sicuro che avrà un altro spirito, più… Più collaborativo».
«Ha ragione dottore. Domani andrà meglio».
Il medico accompagnò il malato alla porta dello studio e gli tese la mano, che Giovanni strinse con affetto.
«Allora a domani, Giovanni».
«Sì. Arrivederci dottore».
Medico e malato si sorrisero l’un l’altro, e fu un sorriso pregno di primordiale umanità. Entrambi sapevano bene come sarebbero andate le cose. Il medico restò sulla soglia della porta, e osservò Giovanni andare via lentamente, un colpo di tosse dopo l’altro.

***

Giovanni fu l’ultimo paziente della giornata. Il medico guardò con stanchezza l’orologio: proprio in quell’istante scoccavano le venti. Lo studio era oramai deserto, anche la segretaria se ne era andata da un pezzo. Il medico indossò il costoso cappotto di cashmere, afferrò la borsa di pelle e uscì, diretto a casa. La scoperta di quel male incurabile lo aveva sconvolto, come accadeva ogni volta in questi stramaledetti casi. Sul suo bel volto aleggiava un’espressione cupa, manifestazione di un grande e intimo dolore.
Il medico era sposato da dieci anni con un’insegnante di lingua inglese, una donna estremamente colta, affascinante e intelligente, che in tutti quegli anni di convivenza aveva imparato a conoscerlo alla perfezione, come le proprie tasche.
Le bastava un’occhiata fugace, uno sguardo lanciato di sottecchi per comprendere lo stato d’animo del marito.
«Cosa c’è che non va?», domandò al medico quando furono seduti a tavola, dinanzi a del sushi.
«Cara, non posso mai nasconderti nulla. Una settimana fa è venuto a trovarmi un uomo più o meno della mia stessa età, Giovanni, un contadino. Un uomo di una sensibilità, di una bontà e di un’ingenuità straordinarie. Lo si capisce subito, al primo sguardo. Ha qualcosa del principe Myškin. È venuto perché da un paio di mesi lo tormenta una tosse terribile, insistente, che gli impedisce di dormire. Mi ha detto di essere venuto da me, da uno specialista, sperando così di risolvere al più presto l’annoso problema e ritrovare il sonno, che ha definito, testuali parole, “l’unica consolazione che gli è rimasta”. Gli ho prescritto una lastra e questa sera l’ho analizzata. Tumore ai polmoni. Maligno. Non gli restano che quattro, al massimo sei mesi di vita».
«Come ha reagito?».
«Qui sta il guaio. Non mi è sembrato affatto disperato. Nel suo sguardo, nelle sue parole, più in generale nel suo atteggiamento, non c’era disperazione, ma rassegnazione. No, neanche rassegnazione. Forse… Forse noncuranza, direi quasi indifferenza. Ed è peggio».
«Hai provato a convincerlo a curarsi, a lottare?».
«Sì, come faccio sempre in questi casi, ma il mio è stato un tentativo vano. Era come se le mie parole di conforto e incitamento si infrangessero contro un muro di gomma. Una sensazione strana. Inusuale. Comunque, ho rimandato tutto a domani, quando forse avrà uno spirito diverso».
«Lo sai bene, in questi casi dipende tutto dalla paura. Se nelle prossime ore il malato proverà paura, paura di morire, paura di perdere tutto, allora tornerà e proverà a curarsi. Ma se si tratta di un uomo che non teme la morte, allora no, non tornerà. Si rifugerà in un cantuccio e lascerà che la malattia faccia il suo corso, senza ribellarsi al suo destino, oramai segnato».
«È sempre così. La maggior parte dei malati, dei malati gravi, quando ascoltano una tale sentenza, una tale condanna a morte – perché in fin dei conti, senza troppi giri di parole, di ciò si tratta – provano un immediato terrore, e lo spavento si impossessa dei loro volti, che si trasfigurano. È come se a un tratto si accorgessero, per la prima volta nella loro vita, di essere vivi. E, compiuta questa scoperta, non vogliono abbandonare il mondo, si aggrappano ad esso con morbosità. Ma ti assicuro che poco fa in Giovanni non ho visto una sola traccia di terrore. Non un’imprecazione, non un gesto di ribellione. Pensa, quando gli ho annunciato, compiendo uno sforzo sovrumano, violentando me stesso, che gli restavano solamente pochi mesi di vita, lui ha mormorato: “Credevo meno”. Poi, come se non bastasse, prima di andarsene, stringendomi calorosamente la mano e guardandomi con intensità negli occhi, mi ha persino sorriso! È assurdo…».
«Quindi temi che non tornerà?».
«Temo e credo che non tornerà».
«Andrai a cercarlo? Proverai ancora a convincerlo?».
«Non avrebbe alcun senso… L’accettazione del male non lascia scampo. E poi, sai, in tutti questi anni di attività ho capito una cosa, forse l’unica, che noi medici non siamo altro che degli ambasciatori, dei portavoce della scienza, niente di più. È il paziente, il malato la cura stessa, e se lui non vuole guarire non guarisce, punto e basta. C’è poco da fare. Tra l’altro, nel caso di Giovanni, si tratterebbe solamente di prolungare l’agonia».
«Ah, caro, come ti compatisco… Proprio non immaginavi che fare il medico sarebbe stato così penoso…».
«Lo intuivo, ma non pensavo che sarebbe stato così ingiusto. In tutti questi anni mi sono capitati, ahimè, decine e decine di casi analoghi, eppure non sono mai riuscito ad abituarmi alla sofferenza, mai. Ogni volta la stessa, straziante amarezza. Ogni volta la stessa, maledetta angoscia».
«Tutto questo perché tu ti ostini a non volere accettare il dolore, e lo sai. Hai scelto di fare il medico proprio per combattere il dolore, ma il dolore non si può vincere, non si può estirpare. È il “principio motore di tutto l’uman genere” [1]. Sai bene come la penso, Claudio».
«Lo so, Patrizia, lo so, ed è per questo motivo, oltre all’amore ovviamente, che ti ho voluta per sempre al mio fianco. Senza di te, senza la tua quotidiana presenza, sarei annegato presto nelle mie speranze. Non posso fare a meno di sperare. “Sperare è umano, perseverare stupido”, diceva sempre mio padre, ma nonostante ne sia pienamente consapevole, non riesco a farne a meno. Sperare è nella mia natura, e un uomo, per quanto nel torto, non può rinnegare la propria natura».
«No, purtroppo non può, anche se sa di essere destinato per sempre alla sconfitta, alla disfatta».

***

No, Giovanni non provava spavento. Forse perché la sua vita era stata avara di soddisfazioni. Forse perché non aveva nessuno accanto, né una donna né un amico. Non aveva che la terra, che lavorava con passione e dedizione. La notizia dell’inesorabile malattia l’aveva accolta come una notizia certamente grave, ma niente affatto straordinaria. Come se un mattino, a lavoro, gli avessero detto: «Questa notte la grandine ha devastato i frutti». E Giovanni, alla notizia della sua morte imminente, aveva reagito proprio come avrebbe reagito alla notizia della grandine, con un’alzata di spalle, consapevole di non poter opporre resistenze all’eccezionale e imprevedibile forza del caso. Egli non era certo un fatalista. Un contadino non può esserlo.
Ascoltato il responso medico, Giovanni decise di non tornare subito a casa, ma di passeggiare un poco per le strade, a quell’ora deserte in inverno, della sua cittadina di provincia. Dopo un’ora di cammino, fece una sosta in riva al mare. Era una splendida notte di dicembre. Il freddo era piacevole, in quanto niente affatto eccessivo. I palazzi che giganteggiavano tutt’intorno erano addobbati con variopinte e intermittenti luci natalizie. Il suono melodioso delle onde in perpetuo movimento giungeva alle orecchie di Giovanni come una monotona e rassicurante ninna nanna. Nel cielo privo di nubi risplendevano innumerevoli le stelle, e si ergeva avvenente la luna piena, che rischiarava, con la sua luce delicata, ogni cosa. Giovanni, in piedi, le braccia esili appoggiate alla vecchia e arrugginita ringhiera di ferro battuto, tossiva e osservava il mare. A largo un piccolo peschereccio solitario procedeva adagio. Giovanni era totalmente assorto nei suoi pensieri. Pensieri nuovi, inediti, frutto della sconvolgente – sconvolgente per qualunque altro uomo, ma non per lui – notizia appena ricevuta.
“Che senso avrebbe intraprendere una cura inutile, devastando ancor di più il corpo, quando il mio destino è oramai segnato?”, si domandava riflettendo inoltre sull’incredibile fatto che la sua esistenza stava per esaurirsi, proprio come una candela di cui non rimane che un mozzicone.
“E così, eccomi giunto al capolinea. Quarant’anni… Non posso certo lamentarmi, in fondo, ho vissuto la vita che volevo, la vita che era nelle mie possibilità vivere. Non potevo avere una donna, e non ho mai desiderato una donna. Non potevo avere un amico, e non ho mai desiderato un amico. Non potevo diventare ricco, e non ho mai desiderato di essere ricco. E poi, morire ora oppure tra altri quarant’anni, cosa cambierebbe? In sostanza nulla. La morte è il destino di ogni uomo, e sai cosa? Io mi ritengo tutto sommato fortunato di conoscere più o meno esattamente il termine ultimo della mia esistenza. Tra qualche mese sparirò per sempre da questo mondo. È una sensazione strana. Insomma, anche prima della malattia sapevo di dover morire, un giorno, ma avere ora la consapevolezza che ciò accadrà tra poco, tra pochissimo, fa un certo effetto. Chissà perché, ma credo che sia una situazione molto simile a quella in cui si trova il condannato a morte, più o meno. E per quanto mi riguarda non è mica poi così sgradevole. E io che speravo di ritrovare il sonno… È in fondo questa la cosa che mi dispiace di più. Non poter fare una bella dormita, lunga e ininterrotta. È un vero peccato, ma che farci? È così che vanno le cose, è così che va la vita, ed è inutile struggersi oppure arrabbiarsi, tanto non possiamo fare nulla. Piuttosto, ora cosa dovrò fare? Come dovrò comportarmi? Uhm… Non è mia intenzione curarmi, e allora? Aspettare? Aspettare che la malattia prenda il sopravvento? Sarà molto doloroso lasciarsi divorare dal tumore, già me lo immagino. Costretto a letto ad aspettare la fine. Dunque, il dottore, quell’uomo così bravo e istruito, mi ha detto che mi restano dai quattro ai sei mesi. Per quanto tempo ancora potrò fare affidamento su delle energie fisiche accettabili, che mi permettono di muovermi e pensare liberamente, autonomamente? Chissà… Forse per un mese ancora starò abbastanza bene, eccetto questa fastidiosa e insopportabile tosse. Poi? Eh, volente o nolente sarò costretto a marcire in un letto e aspettare. Aspettare e soffrire. Ma se non riuscissi a soffrire proprio fino alla fine? Sarei costretto ad anticipare in qualche modo la malattia, ad agire in anticipo. C’è qualcuno che lo fa. Com’è che si chiama? Vediamo… Ah, sì, eutanasia, ora ricordo. C’è chi sta male come me e, non volendo soffrire proprio fino alla fine, si uccide. Sì, è così che funziona. Beh, è giusto. Il suicidio è un pensiero singolare, ma l’uomo ha il diritto di morire, a maggior ragione quando è malato. È egoistico, da parte di tutti quelli che stanno bene, privarlo di questa libertà. Dunque, dai quattro ai sei mesi… Forse la malattia è un’occasione per capire quello che voglio veramente”.
Un cane randagio piuttosto malandato, zoppo e denutrito, a passeggio sulla spiaggia deserta, attirò l’attenzione di Giovanni, ispirandogli uno sconfinato sentimento di pietà.
“Toh, guarda quella povera bestiola. Chissà se ha voglia di morire oppure continuare a vivere fino ala fine, nella solitudine e nella fame. Io ancora non so se voglio soffrire per tutti questi mesi. Devo pensarci”.
Giovanni, oramai abituato all’insonnia, trascorse l’intera notte appoggiato alla ringhiera arrugginita, pensando e osservando le onde andare e venire senza sosta. Di tanto in tanto i suoi violenti colpi di tosse riecheggiavano potenti lacerando l’assoluto silenzio. Restò lì, immobile e pensieroso, fino all’alba, e dopo aver ammirato il sole sorgere se ne tornò a casa, camminando lentamente, tra un colpo di tosse e l’altro.

NOTE

[1] Pietro Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, 1773.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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