Gli sconfitti – Il demone

Sul piccolo schermo della slot machine innumerevoli geroglifici variopinti si rincorrevano senza sosta, uno dietro l’altro, accompagnati dal suono monotono di un pulsante premuto pesantemente, a intervalli regolari, sempre dallo stesso dito indice.
Antonio, un uomo di mezza età, calvo e tozzo, accovacciato sullo sgabello, avvolto nel vecchio e logoro cappotto, giocava, giocava con ferocia. Da un pezzo non sperava più, ben consapevole che vincere con quell’aggeggio infernale era praticamente impossibile, ma non riusciva a smettere, non poteva smettere. Un losco individuo qualche anno più giovane di lui gli si avvicinò, sussurrandogli qualcosa all’orecchio.
«Dai Anto’, per oggi basta, dobbiamo chiudere».
Antonio, senza rispondere nulla, premette per un’ultima volta il pulsante giallo, con stizza, increspando le labbra, e se ne andò, salutando con un cenno del capo il proprietario della sala.
Era l’una di notte e per le strette vie di N. non c’era più anima viva. Antonio si dirigeva a casa con un passo lento, affaticato, come se le sue gambe corte strascinassero un peso enorme, insopportabile. Abitava in una palazzina al centro della città, accanto al vecchio ospedale. Proprio davanti allo stabile c’era una piazzetta fatiscente, trascurata nonostante la posizione strategica. Qui, su una delle umide panchine di legno, Antonio intravide un giovane. Fumava. Lo raggiunse e gli si sedette accanto. Il giovane manifestò un certo fastidio. Si scostò di qualche centimetro dal disturbatore, senza però andarsene. Antonio gli rivolse la parola.
«Scusa, me la offriresti una sigaretta?».
Il giorvane gli porse in fretta il pacchetto appena aperto. Antonio lo ringraziò. Dopo aver fumato avidamente, si rivolse di nuovo al giovane. Aveva un incontenibile bisogno di parlare con qualcuno.
«Sembro un uomo così miserabile?», gli chiese sorridendo.
Il giovane lo scrutò con altezzosa curiosità, ma non rispose nulla. Dentro di sé bestemmiava e malediceva il caso per aver condotto proprio in quella stramaledetta piazzetta un ubriacone.
Antonio, dopo aver atteso invano per qualche secondo la risposta alla sua prima domanda, ne pose un’altra.
«Lo vedi quell’appartamento al terzo piano?».
Il giovane, irritato, si limitò a gettare uno sguardo proprio nel punto indicato con il dito indice da Antonio, quello stesso dito indice della mano destra con il quale ogni sacrosanto giorno, oramai da parecchi, da troppi mesi premeva ossessionatamente il pulsante giallo dell’infame slot machine.
«Quella è casa mia, forse ancora per poco. I miei genitori me l’hanno lasciata molti anni fa. Ci vivo con mia moglie e con il mio unico figlio di dieci anni».
Dopo aver ascoltato quelle parole, il giovane mutò atteggiamento. Non era più stizzito, ma incuriosito, istintivamente persuaso di aver accanto un uomo desideroso di raccontare la propria storia, una storia che presagiva drammatica e fuori dall’ordinario.
«Mia moglie e mio figlio a quest’ora staranno dormendo, mentre io sono ancora in giro, come un cane randagio. Ah, poveri loro… Magari non lo sembro, anche se ne dubito, questo cappotto è così consunto, ma sono proprio un miserabile».
Antonio parlava piano, adagio, con un tono di voce talmente sommesso e affranto da suscitare la compassione di quel giovane interlocutore che, solo pochi istanti prima, lo aveva accolto con fastidio e irritazione.
«Fino a sei mesi fa andava tutto bene, era tutto perfetto. Eravamo una famiglia felice, davvero invidiabile. Io lavoravo e guadagnavo bene. Si tirava avanti con facilità, e senza che mia moglie avesse bisogno di lavorare, un lusso di questi tempi. Lei doveva pensare solo alla casa e a crescere nostro figlio. Ricordo che quando rientravo a casa, magari dopo una giornata sfiancante – ah, come rimpiango quella fatica onesta e dignitosa! – il mio cuore si illuminava e si riempiva di gioia. Abbracciavo mio figlio, gli chiedevo come era andata a scuola e baciavo mia moglie, trasportato dall’amore e dalla gratitudine. Ringraziavo persino Iddio prima di addormentarmi. Poi… Poi sono stato licenziato, non per colpa mia, ma a causa di questa dannata crisi senza fine, e tutto in un attimo è cambiato, in peggio ovviamente. Sono otto, quasi nove mesi che non lavoro».
Antonio raccontava e scuoteva il capo. Il giovane comprese di non avere a che fare con un ubriacone molesto, ma con un uomo disperato, e ciò lo rattristò oltremodo.
«Un giorno, avevo perso il lavoro da una settimana, passai così, per caso, davanti a una sala da gioco e vi entrai, con la folle e stupida speranza di uscirne con qualche soldo. Non ho mai commesso né commettero mai un errore più grande. Da quel fottutissimo giorno – che il diavolo lo cancelli dal calendario! – trascorro intere giornate davanti alla slot machine. Lo so, lo so benissimo che vincere è impossibile, ma non riesco a smettere! In questi mesi mi sono giocato tutto… E ora la mia famiglia, un tempo felice, tranquilla e spensierata, vive nella miseria. Io… Io mi faccio schifo!».
«Sua moglie lo sa?», domandò il giovane con durezza. Dopo le ultime parole di Antonio dal suo animo era svanita la compassione, lasciando spazio al rimprovero e, soprattutto, al disprezzo.
«Sì che lo sa. Certo che lo sa. Come potrebbe non saperlo? È stata costretta a trovarsi un lavoro, poveraccia. Ora fa le pulizie. Pulendo i cessi di quei benestanti che possono permettersi una donna di servizio, guadagna poco, pochissimo, e quasi tutto quel denaro, conquistato con il sudore e il sangue, io me lo gioco. Glielo rubo… Lo perdo… E andiamo avanti a stento, arrancando come arrancano gli zoppi. L’armonia di un tempo si è frantumata in migliaia di pezzi. Ora non facciamo altro che alzare la voce l’uno contro l’altro e discutere, e litigare. Nostro figlio, poverino, sente sempre tutto e soffre, e piange, ma non dice mai niente. Ti prego, non guardarmi così», implorò Antonio il giovane interlocutore, che lo fissava con occhi feroci, iniettati di sangue.
«Io sono stretto nella morsa di un demone invincibile, il demone del gioco. Si è impossessato di me e non mi lascia. Mi deride persino, e non mi molla!», rantolò Antonio tremando dalla testa ai piedi, e non per il freddo che pure pungeva.
«Non ci pensi a loro, eh? Li hai ridotti alla povertà! Li hai costretti all’umiliazione!», proruppe il giovane indicando con un rapido e significativo cenno del capo l’appartamento di Antonio.
«Certo che ci penso! Ci penso sempre, ogni secondo, ma questo non basta… Non basta a sconfiggere il demone. Vedi? Lo vedi? Anche ora mi è accanto. Guardalo, guardalo quant’è schifoso, quant’è viscido. Sghignazza, mi sbeffeggia, mi ingiuria e io non so come liberarmi di lui».
«Con la volontà!», ruggì all’improvviso il giovane saltando su dalla panchina, e il suo grido echeggiò spaventoso, quasi disumano nella piazzetta deserta. Il giovane non riusciva a dominarsi, era un fiume in piena che aveva distrutto gli argini.
«Non lo capisci che se lo vuoi puoi schiacciare quel demone? E poi, come puoi non liberartene quando devi rendere conto a una moglie e a un figlio? Come? Rispondi perdio, altrimenti giuro che ti prendo a calci!».
Antonio, aggredito senza pietà dal giovane, era in difficoltà. Balbettava, faticava a esprimersi, soffocava come se una mano invisibile lo stringesse alla gola. E il suo demone non lo abbandonava, gli era sempre accanto e rideva, rideva di lui, della sua debolezza, della sua miseria senza alcun ritegno.
«Io… Io… Ah, se fosse così semplice! Se dipendesse solo dalla volontà! Io voglio… Lo giuro sul padreterno, io voglio… Ma… Ma…».
«Eh no!, tu non vuoi!», lo interruppe con veemenza il giovane, «tu non vuoi con tutto te stesso. Tu sei un egoista e basta! Tu non sei altro che un prodotto di questa terribile e corrotta società alla deriva! Farsi schiacciare da un vizio… Schiavi di una dipendenza… Che disgusto! Un uomo, un vero uomo non arriverebbe a tanto, no, non ci arriverebbe. Oppure, se disgraziatamente ci arrivasse, saprebbe uscirne, saprebbe strozzare e uccidere quel demone, quel santimbanco del gioco d’azzardo che tu solo, e nessun altro, ha creato, e saprebbe tornare in ginocchio dalla sua famiglia implorando il perdono! Ma tu non sei un uomo…».
«No… Io non sono un uomo… Io sono un lurido verme…».
«E com’è semplice e comodo essere un lurido verme!», sbottò infine con inaudita crudeltà il giovane, che, detto questo, scagliò il pacchetto di sigarette dritto in faccia al giocatore e se ne andò.
Antonio, piegato in due come l’uomo che ha appena ricevuto un pugno nello stomaco, il capo chino a terra e il volto tra le mani, piangeva. Ed era un pianto disperato, i cui incontenibili singhiozzi squarciavano l’assoluto silenzio della notte. Mai nessuno, prima d’ora, gli aveva detto delle cose simili. Mai nessuno, prima di quella gelida sera, gli aveva parlato in un modo così franco e brutale, senza un briciolo di pietà. Mai nessuno lo aveva fatto sentire così disgustoso e miserabile. Neppure la moglie, che pure in ogni quotidiana e violenta lite lo insultava rinfacciandogli la tragica situazione familiare. Ma, caso strano, Antonio non provava un solo briciolo di rancore nei confronti di quel giovane sconosciuto, tutt’altro. Tra le lacrime benediceva il Signore per quell’incontro e provava qualcosa di molto simile alla gratitudine. Forse per lui quell’incontro così doloroso e umiliante avrebbe rappresentato la svolta. Forse… Il demone gli era sempre vicino, ma almeno aveva smesso di sghignazzare. Almeno.
Intanto il giovane, che sentiva addosso ancora l’adrenalinico furore della conversazione, camminava a passo svelto per le strette e deserte vie di N. come se fosse rincorso da qualcuno. Mentre il rumore del mare in perpetuo movimento gli risuonava nelle orecchie, rimproverava duramente se stesso per non essere riuscito a dominarsi. Non gli era mai capitato prima. E non aveva certo detto tutte quelle cose con lo scopo di redimere quell’uomo perduto, finito, no. Neppure per un solo istante aveva avuto questa presunzione (la presunzione tipica dei preti). Si era solamente sfogato, scaraventando fuori tutto ciò che quella triste storia aveva suscitato nel suo animo sensibile. Camminava veloce e pensava a quelle due povere creature vittime del caso, vittime del vizio di un uomo fragile, senza personalità, senza volontà, che presto le avrebbe addirittura private di un tetto sotto il quale dormire – se non l’aveva già fatto – pur di continuare a giocare e perdere una montagna di denari. Il giovane avrebbe voluto aiutare la moglie e il figlio di Antonio, ma lui non era che uno studente universitario squinternato che nel fine settimana faceva il cameriere per pagarsi, almeno in parte, gli studi. Avrebbe voluta allontanarli da quell’essere spregevole e debole annientato dal suo demone, e in questo modo salvarli.
“Con quale diritto, con quale dannato e incomprensibile diritto un uomo si permette di rovinare altre esistenze oltre alla sua? È un’ingiustizia inaudita!”, ripeteva tra sé.
Uno sconfinato sentimento di compassionevole umanità lo invase, costringendolo persino a versare qualche lacrima amara. E il suo non era un pianto di coccodrillo, come forse quello di Antonio. Era un pianto sincero, tipico di quei rari individui dal cuore puro e generoso che non hanno dimenticato di essere innanzitutto degli uomini, e come tali agiscono istintivamente nel nome di un unico valore: la solidarietà.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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