Gli sconfitti – Il benefattore

Lisa osservava enigmaticamente la strada, sforzandosi di trovare una soluzione. Quel giorno aveva smesso di lavorare più tardi del solito. Pochi minuti, ma fatali. L’autobus oramai era passato e non sapeva come raggiungere la scuola elementare dalla quale, proprio in quegli istanti, stava uscendo il figlio di otto anni. Osservava la strada ed era preoccupata. Senza mezzi ci voleva più di mezzora di cammino per raggiungere l’istituto. E poi il cielo minacciava pioggia. Che fare? Aveva bisogno a tutti i costi di un passaggio.
Accanto a Lisa c’era un uomo anziano, di circa settant’anni, dal volto rassicurante, ricoperto da una folta barba bianca. Quell’uomo era la sua speranza.
«Mi scusi, signore. Avrei bisogno di un grandissimo favore, di un passaggio per andare a prendere mio figlio a scuola. I bambini stanno uscendo proprio ora, in questo momento, e io sono rimasta a piedi. Ho fatto tardi a lavoro, ho perso l’autobus e non so come fare».
«Non c’è problema, Lisa. La mia auto è lì, andiamo».
L’uomo, che pranzava ogni giorno nel ristorante in cui la donna era impiegata come cameriera, ne conosceva il nome, e per quella creatura aveva provato da subito, istintivamente, un certo affetto paterno, pur non rivolgendole mai sul serio la parola. Era felice di esserle d’aiuto.
«Eccoci arrivati. Vuoi che vi aspetti? Che vi accompagni a casa?».
«No, no, non c’è bisogno. Abitiamo qui vicino, a due passi. Grazie, grazie mille signore, le devo un favore».
«Non chiamarmi signore, chiamami Bruno. E dammi del tu».
«Grazie, Bruno, senza di te non so come avrei fatto oggi. Grazie ancora. Per sdebitarmi, batjuska, posso invitarti domani a prendere un caffè? È sabato e io il sabato e la domenica non lavoro perché devo stare con mio figlio».
«Molto volentieri. Domani pomeriggio va bene?».
«Sì, va benissimo. Vediamoci dopo pranzo, alle tre, in quel bar».
«D’accordo».
«Allora a domani, batjuska. E grazie ancora. Grazie mille».
Lisa chiuse con grande attenzione lo sportello dell’automobile di Bruno e si precipitò correndo nel cortile della scuola elementare. Non era rimasto che Nikolaj, suo figlio. Lo attendeva corrucciato all’ingresso, in compagnia di una grassa bidella spazientita dalle gambe gonfie.
Non appena Nikolaj vide la madre varcare di corsa la soglia del cancello della scuola, i suoi occhi lampeggiarono e si riempirono di gioia. Gli dispiaceva di essere rimasto solo, afflitto da quel tipico sentimento d’abbandono che i bambini provano quando i genitori ritardano e tutti i compagni sono andati via. Ma l’apparizione di Lisa spazzò via in un istante ogni nube dal suo volto pulito.
«Mamma!», esclamò Nikolaj scattando come una molla incontro alla madre. Gli sembrava di averla attesa per una vita.
«Amore!», gli rispose Lisa abbracciandolo. Se lo strinse forte al cuore. Non aveva che il suo «ometto», così amava chiamare Nikolaj, e in tutto quel tempo si era sentita straordinariamente in colpa per averlo fatto aspettare più del solito, solo. I due, mano nella mano, presero la via di casa, mentre iniziavano a cadere le prime gocce di pioggia. Nel breve tragitto dalla scuola elementare al modesto appartamento nel quale vivevano in affitto, Nikolaj raccontò a Lisa nel dettaglio l’intera giornata, le nuove scoperte e le nuove conoscenze. Entrambi erano felici.

***

Seduti all’esterno di un chiosco bar situato a ridosso del mare, Lisa e Bruno osservavano Nikolaj giocare sulla spiaggia deserta, avvicinarsi alle onde e poi fuggire.
«Quanti anni ha?».
«Ha otto anni il mio ometto».
I loro sguardi benevoli e placidi seguivano ogni singolo movimento del bambino.
«Perché pranzi ogni giorno al ristorante?», chiese improvvisamente Lisa a Bruno, a bruciapelo, con quel suo adorabile tono di voce infantile che la contraddistingueva. Quell’uomo anziano le ispirava una fiducia incondizionata, dalla prima volta che lo aveva visto, forse perché nel mezzo di quella barba incolta c’era in ogni momento spazio per un discreto e bonario sorriso.
«È una storia lunga», si limitò a rispondere evasivamente l’uomo, come se volesse evitare di parlare di un argomento scomodo, doloroso.
«Scusami batjuska, io… Io non volevo…», balbettò Lisa sentendosi in colpa per la sua indiscrezione. Dopo l’avventata domanda, aveva infatti subito notato un mutamento nel volto dell’uomo, come se vi passasse sopra un’ombra.
I due tornarono a concentrarsi esclusivamente sul piccolo Nikolaj. La donna temeva ora di aprir bocca, temeva di dire qualche altra schiocchezza e infastidire Bruno.
«Ogni giorno pranzo al ristorante», iniziò ad aprirsi dopo qualche minuto di assoluto silenzio l’uomo, «perché sono solo e lì, almeno, trovo un poco di compagnia. Vedi, Lisa, mia moglie è morta cinque anni fa. Ho due figli, ma ormai sono grandi e da tempo non abitano più qui. Per questo motivo pranzo ogni giorno al ristorante».
Bruno aveva pronunciato queste intime parole contemplando ardentemente il mare calmo. Lisa, colpita da quell’inattesa confessione, decise di raccontargli qualcosa di lei. Le sembrava la cosa più giusta da fare in quel delicato ed emozionante momento.
«Anche noi, io e Nikolaj, siamo soli. Siamo venuti in Italia quattro anni fa, dall’Ucraina, per raggiungere mio marito, il padre di Nikolaj. Ma, appena siamo arrivati qui, abbiamo scoperto che lui non c’era più, che era scappato in Svizzera con un’altra donna».
«E così siete rimasti soli».
«Sì. Per fortuna ho trovato subito lavoro al ristorante, come lavapiatti. Portavo Nikolaj sempre con me e tutti giocavano con lui. Poi ho imparato l’italiano, molto in fretta, e mi hanno promossa cameriera. Lo stipendio è aumentato e siamo riusciti a prendere in affitto una piccola casetta tutta nostra. All’inizio dormivamo in chiesa. I proprietari del ristorante ci vogliono bene, si sono affezionati a noi, ci aiutano. Mi permettono addirittura di lavorare solamente dal lunedì al venerdì, esclusivamente a pranzo, perché sanno che non posso lasciare Nikolaj da solo».
«Sì, sono brava gente», confermò sorridendo Bruno, che ascoltava Lisa con enorme interesse.
«Sai, batjuska, il mio nome in realtà è Elizaveta, ma tutti qui mi chiamano Lisa. È più facile».
«È vero. Ci pensi spesso al tuo paese?».
Bruno era curioso di esplorare quella creatura. Dopo la morte della moglie, stroncata da un fulmineo tumore al seno, era convinto di essere l’unico uomo sofferente sulla faccia della terra, in preda a una fastidiosa ed egoistica autocommiserazione. Da qualche mese però le cose erano cambiate, come se Bruno, in vecchiaia, avesse aperto gli occhi per una seconda volta dopo la nascita. Ora vedeva attorno a sé tutta la disperazione del mondo, e aveva finalmente compreso di non essere altro che un uomo sofferente come tutti gli altri. E la drammatica storia di Lisa non faceva altro che confermare questo.
«Ci penso sempre batjuska, tutti i giorni, soprattutto prima di addormentarmi, quando, stanca dopo tante ore di lavoro, chiudo gli occhi e stringo forte il mio ometto. In Ucraina abbiamo una fattoria, abitiamo in un piccolo paese dove fa sempre freddo e c’è sempre la neve. I miei genitori li sento, ogni tanto. Stanno bene. Noi qui stiamo bene, non ci manca niente, ma ci penso sempre al mio paese e ai miei vecchi genitori. Devono avere più o meno la tua età».

***

La conoscenza di Lisa rappresentò per Bruno l’inizio di una nuova vita. Finalmente, dopo anni e anni di dolore, solitudine e turbamenti, ricominciava a vivere.
Bruno aveva alle spalle una carriera di quarantacinque anni nelle ferrovie dello stato. Poteva contare su di una pensione più che dignitosa, abbondante per il suo modesto stile di vita. Inoltre possedeva due ampi appartamenti, oltre a quello in cui abitava, ereditati dalla moglie. Li aveva da subito destinati ai figli, ma non era proprio nelle loro intenzioni di marcire in provincia. Così, in una delle due case, entrambe sfitte, fece trasferire Lisa senza pretendere nulla in cambio, sgravandola in questo modo del peso dell’affitto. Inoltre mise a disposizione della donna una fidata baby sitter, per permettere a Lisa di lavorare anche nel fine settimana e guadagnare di più.
In una cittadina bigotta e ciarliera come N. le voci si rincorrono in fretta, e Bruno era piuttosto conosciuto. La defunta consorte poi, apparteneva a una delle famiglie più note e ricche della città. Qualche pettegolo mise in circolazione una voce infamante e assurda: dopo anni di clausura il vecchio ferroviere s’era trovato l’amante, una donna straniera che avrebbe sposato presto e alla quale avrebbe lasciato tutto il suo patrimonio. Chissà come, la voce giunse persino ai figli di Bruno, i quali, preoccupati, decisero di andare a trovare il padre per verificare in prima persona la delicata questione. Bruno non era affatto uno sprovveduto, sapeva che prima o poi avrebbe avuto a che fare con le malelingue, ma non gli importava nulla del parere della gente. Se ne infischiava di ciò che si diceva in città. Gli interessava invece il parere dei figli, ai quali fece questo commovente discorso quando lo andarono a trovare.
«Miei cari ragazzi, voi credete che il vostro vecchio e stanco padre abbia perso la testa, si sia invaghito di una straniera che si approfitta di lui, dilapidandogli la pensione, e alla quale lascerà tutti i suoi beni. Niente di più sbagliato, niente di più fantasioso. Credetemi, potete stare tranquilli. Il mio amore per vostra madre cresce, di giorno in giorno si rinnova e si innalza, ve lo assicuro. Mai, mai la tradirei, neppure con il pensiero. Sarebbe qualcosa di troppo meschino, e io mi sentirei troppo in colpa. Sapete, la vado a trovare ogni sacrosanto giorno. Tutte le mattine, che piova oppure ci sia il sole, vado al cimitero, mi siedo davanti alla sua tomba e le parlo, le confesso ogni cosa, tutto, ma proprio tutto quello che mi passa per la testa. Osservo quella sua fotografia che la ritrae giovane e sorridente e mi perdo in quel suo sguardo così dolce, che mi accompagna sempre, che mi è sempre accanto e mi consola, mi muove e non mi abbandona».
Bruno parlava trascinato dall’emozione, e abbracciava con il suo sguardo mite i figli commossi.
«E ora veniamo a Lisa. Cinque anni fa, dopo la morte di vostra madre, sprofondai nelle tenebre, in un terribile stato di dolore e autocommiserazione. Voi non c’eravate, non potevate esserci, e allora mi chiusi, mi asserragliai in me stesso, immerso nella solitudine, devastato dalla soferenza. Ero fermamente e colpevolmente convinto che nessuno potesse comprendere il mio dolore, perché nessuno soffriva quanto me. Tutto questo durò per quattro, lunghissimi e bui anni. E io vi chiedo perdono per il modo in cui vi trattai in quel periodo. Fui troppo duro con voi, vi allontanai da me come, del resto, allontanai da me l’intero mondo e la vita. Ma arrivò un giorno… Un giorno in cui finalmente capii che non potevo più andare avanti così. Mi trovai allora dinanzi a un bivio. Dovevo scegliere tra due strade: una strada conduceva alla morte, alla fine di tutto, l’altra invece riconduceva al mondo, alla vita. Non trovai il coraggio di uccidermi e allora decisi di strapparmi con forza dalle tenebre. Di nuovo nel mondo, finalmente mi accorsi che il mio dolore, per quanto immenso e devastante, non era unico, non era esclusivo. Tutt’altro, era un dolore uguale a quello degli altri uomini. Quando poi conobbi Lisa e Nikolaj, tutto divenne definitivamente chiaro. La loro triste storia mi colpì nel profondo e decisi di aiutarli, di mettere la mia vita e la mia agiatezza a disposizione di due esistenze sole e in difficoltà. Ne parlai con entusiasmo a vostra madre e lei, con il suo sorriso benevolo mi disse: “Sì”. Miei cari ragazzi, ho ricominciato a vivere, e non immaginate quanto mi renda felice potervi raccontare di persona tutto questo, rendendovi così partecipi della mia rinascita. È un bene che siate venuti, anche dalle malelingue può scaturire qualcosa di buono e utile. Nei vostri sguardi vedo comprensione, e di questo vi ringrazio».
Dopo aver ascoltato quelle parole la figlia di Bruno, di qualche anno più giovane del fratello, si lanciò al collo del padre, che strinse in un caloroso abbraccio, scoppiando in un pianto dirompente e balbettando in continuazione: «Come sei buono papà! Come sei buono papà! Scusaci… Scusaci se abbiamo pensato male».

***

In uno dei molti pomeriggi in cui Bruno andava a trovare Lisa e Nikolaj, notò nel volto magro e ridente della donna un’insolita tensione, un’insolita preoccupazione che lo turbò.
«Lisa, oggi mi sembri strana. È successo qualcosa?».
A quella domanda Lisa trasalì, e la sua agitazione aumentò a dismisura. Le sue gote sempre graziosamente pallide si colorarono di un lieve e inedito rossore. I suoi occhi chiari brillarono. Afferrò una sedia e si accomodò davanti a Bruno. Si tormentava in continuazione le piccole mani. Doveva riferire all’uomo qualcosa di importante, di decisivo, ma esitava, non trovando il coraggio necessario.
«Bruno… Batjuska… Io devo parlarti… Devo… Devo dirti una cosa importante».
«Eh, Lisa… Lo immaginavo», mormorò l’uomo allarmato.
«Però… Però non è facile».
«Stai tranquilla, rilassati. Mica ti mangio».
«Tu… Tu sei sempre stato così generoso con noi, così buono e io non ti dirò mai abbastanza grazie…».
Lisa stava pian piano prendendo coraggio.
«In questi mesi, batjuska, ci hai dato un aiuto incredibile, e mai avrei pensato che al mondo esistesse una persona buona come te. Sei il nostro benefattore. E in cambio non ci hai mai chiesto niente, niente. Ma… In questi ultimi giorni la nostalgia per la mia terra, per i miei genitori si è fatta sentire così fortemente che io…».
Lisa si interruppe. Il groppo che le si era all’improvviso formato in gola le impediva di continuare. Intervenne allora Bruno, che con la sua straordinaria perspicacia aveva compreso ogni cosa in anticipo, e completare il pensiero di Lisa.
«Tu hai capito di non poter resistere un giorno di più qui, lontana dal tuo paese e dalla tua famiglia».
Lisa annuì, sforzandosi di reprimere le lacrime. Non voleva assolutamente che il piccolo Nikolaj, intento a giocare vicino a loro con delle costruzioni colorate, la vedesse piangere.
«Lisa, non devi preoccuparti di nulla», la rincuorò Bruno.
«Da… Da… Davvero?», balbettò la donna.
«Certo, certo. Non c’è nessun problema. Ti capisco, credimi, e non sarò certo io a oppormi al vostro ritorno in Ucraina. Perché dovrei farlo? Vi aiuterò a tornare il prima possibile a casa».
Lisa scattò verso Bruno, lo abbracciò con ardore e scoppiò in un pianto dirompente, incontenibile, nascondendo il volto bagnato, inondato di lacrime sulla robusta spalla dell’uomo.
Nikolaj, accortosi immediatamente delle lacrime della madre, smise di giocare, smise di costruire e le si avvicinò con un’aria preoccupata. Voleva conoscere il motivo di quel pianto copioso, voleva consolare la madre. Non sopportava di vederla in quello stato.
«Mammina, perché piangi?».
«La mamma piange perché è felice», gli rispose prontamente Bruno, sorridendo.
Sul volto innocente e puro del bambino si formò una smorfia interrogativa. Corrugò la fronte e puntò le manine sui fianchi, tentando di decifrare il senso di quella stramba affermazione di batjuska. Nikolaj si domandava come fosse possibile piangere e al tempo stesso essere felici.
«Ma io piango quando soffro», fece notare il bambino, perplesso.
«Oggi hai imparato una cosa nuova, mio ometto, che si può piangere anche quando si è felici, quando si è tanto, ma tanto felici», spiegò Lisa al figlio, inginocchiandoglisi davanti e accarezzandolo sulla guancia.
«Vuoi sapere perché la tua mamma è così felice?», domandò poi a Nikolaj.
«Sì».
«Perché presto torneremo a casa…».
«Ma siamo già a casa».
«Nella nostra vera casa, dai nonni».
«Ah!».
«Lì, come quando eri piccolino, potrai giocare con la neve e con tanti, tanti animali».
«E il mare?».
«Lì non c’è il mare. Lì c’è la montagna, ricordi? Ci sono i boschi».
«I boschi dove abitano gli gnomi?».
«Sì, e non solo gli gnomi. Anche le fate, i maghi, i draghi».
«Wow! Bello!».
Bruno osservava con il suo consueto sorriso bonario, che così spesso gli curvava delicatamente le labbra sottili, quell’emozionante idillio familiare, mentre sentiva formarsi dentro di sé un vuoto incolmabile.

Gli sconfitti , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

Precedente Gli sconfitti – Il demone Successivo Gli sconfitti – Il medico e il contadino