Gli sconfitti – Caronte

«Ohè, Caronte! Che bella giornata, eh?».
«Va al diavolo!».
«Ah, ah, ah!».
Caronte era un vecchio di settant’anni. Viveva in campagna, in completa solitudine, in una baracca di legno. Sopravviveva coltivando la terra ed allevando qualche bestia. Inoltre aveva nel porto di N. una piccola barca, non più lunga di tre metri, della quale si serviva una volta alla settimana per andare a pesca.
Caronte ovviamente non era il suo vero nome, gli era stato affibbiato parecchi anni addietro da qualche pescatore colto, a causa della sua impressionante somiglianza fisica con il personaggio dantesco e, soprattutto, a causa del feroce odio che il vecchio dimostrava incondizionatamente per tutti i suoi simili, nessuno escluso, quello stesso odio che il celebre nocchiero infernale provava per le povere anime dannate. Caronte, a dispetto della veneranda età, aveva una folta capigliatura bianca, bianca come la lunghissima barba incolta che gli ricopriva il volto rugoso. Un volto reso spaventoso dagli occhi, veri «occhi di bragia» che riflettevano con efferata spietatezza quell’intenso e sconfinato livore che il vecchio nutriva nei confronti dell’intera umanità. Qualunque fosse la stagione, e che il sole bruciasse oppure il freddo pungesse, Caronte indossava sempre gli stessi abiti: una camicia grigia a quadri, piuttosto pesante, ed un paio di pantaloni spessi e grezzi di un blu sbiadito. Ai piedi portava sempre gli stessi, enormi stivali marroni, leggermente consumati, ma indistruttibili.
Il vecchio Caronte, a causa del suo comportamento singolare, da eremita asociale, era considerato un vero e proprio personaggio mitico conosciuto, almeno per nome, da tutti i cittadini di N. I più anziani poi, suoi coetanei, conoscevano la sua storia. Era il primo di sette fratelli, e a soli otto anni aveva iniziato a fare il pescatore, sulla modesta barca del padre. A vent’anni si era sposato con la diciottenne Livia, sua vicina di casa. Dopo cinque, felici anni di matrimonio, senza figli in quanto la sfortunata donna non poteva averne, Livia si ammalò e nel giro di pochi mesi morì. In seguito alla morte dell’amatissima moglie, alla quale era legato da una vera e propria devozione, Caronte voltò le spalle al mondo e all’umanità, si allontanò dalla società civile sbattendo la porta con disprezzo. Non ebbe neppure pietà dei genitori e dei fratelli minori. Ruppe con un unico, netto e deciso colpo di scure tutti i rapporti, sia familiari che amichevoli, senza versare una sola parola, senza provare neppure un briciolo di rimorso. Smise di tagliarsi i capelli e la barba, smise di sorridere e si ritirò in campagna, solo come un cane randagio. Lo si vide ricomparire in città solamente in occasione dei funerali della madre, ma anche in quella drammatica occasione non disse niente a nessuno, limitandosi a dare una significativa pacca sulla spalla al padre. Quando poi quest’ultimo morì, pochi mesi dopo, a Caronte fu impedito dai fratelli di partecipare alle esequie. Erano troppo adirati con lui per il suo atteggiamento insopportabile ed incomprensibile.

***

Caronte si svegliò presto, alle cinque del mattino, come di consueto. Dopo aver bevuto un bicchiere di latte di capra, uscì dalla baracca di legno ed iniziò subito a lavorare, prendendosi cura del modesto, ma florido orto, dei pochi, ma ricchi alberi da frutto, e delle esigue, ma produttive bestie. Di tutto quello che, in sostanza, gli garantiva una più che dignitosa sopravvivenza.
A mezzogiorno fece una pausa e, seduto sotto la piccola veranda della baracca, consumò un pasto frugale. Terminato il pranzo fumò la pipa, contemplando con gli occhi socchiusi la campagna deserta. La sua proprietà era circondata da terreni incolti, abbandonati. Come sempre se ne stette seduto così per un’oretta, poi afferrò l’accetta e si inoltrò nel grande bosco di F., che si trovava proprio alle spalle della sua baracca, a non più di cinquanta metri di distanza. Caronte vi si recava, dal primo autunno a primavera inoltrata, tutti i giorni per raccogliere la legna necessaria ad accendere il fuoco. Non mutilava gli alberi – non si sarebbe mai permesso di violentare gratuitamente la natura, l’unica cosa, forse, verso la quale non provava il suo odio feroce -, ma si limitava a spaccare i rami spezzati, oramai morti. E a causa del vento e dei fulmini, ce n’erano sempre molti, in abbondanza. Rientrato nella sua proprietà si dedicò ancora un poco all’agricoltura e all’allevamento, poi, al tramonto, rientrò in casa. Accese il fuoco e cenò con una zuppa di cipolle. Quindi prese posto accanto al camino, dedicandosi al suo passatempo preferito.
Caronte trascorreva intere serate intagliando il legno. Negli anni aveva perfezionato la tecnica, raggiungendo livelli di abilità davvero eccezionali. Dal legno ricavava degli animali di cui curava ogni minimo dettaglio. Era capace di creare delle rappresentazioni impressionanti, oltremodo realistiche, che collezionava su delle mensole affisse proprio sul camino. C’erano galline, galli, mucche, maiali, capre, pecore, ma anche uccelli come cornacchie, civette, gufi, barbagianni e pesci di ogni genere. Nella sua baracca non c’era la televisione, e non c’erano neppure libri. Per il suo tempo libero Caronte non aveva a disposizione che un coltello ed un pezzo di legno. E non gli serviva altro.
Proprio nell’istante in cui Caronte, allo scoccare della mezzanotte, si mise a letto, un sottile materasso rattoppato con sopra una vecchia coperta di lana grezza, sentì una strana e lancinante fitta, dapprima in un solo, ma indefinibile punto del suo robusto corpo, all’altezza del fegato, forse, cui seguì un’improvvisa debolezza. Caronte trascorse una notte complicata, per lo più insonne, tormentato dalle sofferenze fisiche, presto diffusesi dappertutto, in ogni angolo del corpo, e dal canto continuo, ostinato e funebre di una civetta che doveva essersi adagiata proprio sulla sommità della sua baracca. Al mattino il vecchio provò ad alzarsi, ma non ci riuscì. Era troppo debole. Gli restava però la forza per imprecare, per inveire a voce alta contro il mondo intero. Proprio non sopportava di dover restare immobile a letto. Chi avrebbe badato all’orto, agli alberi e soprattutto alle bestie? In tutti quegli innumerevoli anni di solitudine, non gli era mai capitato di stare male.

***

«Mamma, ho sentito dire che lo zio sta male».
«Così dicono».
«Questa settimana non è andato a pesca…».
«E cosa vuoi che me ne importi?».
«Ma come, è tuo fratello!».
«Tu non lo conosci, non lo hai neppure mai visto».
«Sì che l’ho visto, al porto, qualche volta».
«Hai mai parlato con lui?».
«N-no… Ho sempre avuto il timore di…».
«E hai fatto bene».
«Ma se ora stesse davvero male? Non si può lasciarlo da solo, così, come un animale selvatico».
«Lui è un animale selvatico! Quando i tuoi poveri nonni stavano male, si è forse degnato di assisterli nella malattia? No! Se ne è infischiato».
«Ma c’eravate voi, tutti gli altri figli, a prendervi cura dei nonni. Lui invece è solo, solo come un cane randagio».
«È quello che ha sempre voluto. Non ha mai desiderato altro. Se proprio deve crepare, che crepi da solo».
«Mamma! È mai possibile… No, io non ci sto. Io andrò a trovarlo, domani, e lo aiuterò».
«Non sa nemmeno che sei sua nipote, ma tanto non fa alcuna differenza. Anche se lo sapesse, ti scaccerebbe comunque via, come un’appestata, insultandoti, prendendoti a calci e sputandoti addosso. Lui non vuole nessuno, non ha mai voluto nessuno».
«Staremo a vedere».
«Tu sei troppo buona. Non ci si può prendere cura dei cani randagi. Noi tutti ci abbiamo provato, neppure immagini quanto ci siamo sforzati, ma niente, non è servito a niente. Ed ora paga il conto il vecchio Caronte, se è davvero malato come dicono».
«Oh quanto sei cattiva e ingiusta, mamma! È pur sempre tuo fratello!».
«È l’esasperazione che mi ha portato alla cattiveria, all’ingiustizia. Io un tempo gli volevo bene… Da morire. Ero pronta a fare qualunque cosa per lui».
«E adesso? Adesso che ha bisogno di noi vuoi continuare ostinatamente a voltargli le spalle?».
«È tutta colpa sua, Francesca. Solo sua».

***

Il giorno successivo al colloquio con la madre, la giovane Francesca, nipote di Caronte, si recò dallo zio. Non dubitava che stesse davvero male, erano troppo insistenti le voci in città, e voleva aiutarlo.
Era una splendida mattina di febbraio, il sole risplendeva e non c’era che qualche innocua nuvoletta bianca in cielo. Francesca si avvicinò con cautela alla baracca, in punta di piedi, guardandosi sospettosamente attorno. Sembrava un segugio. Il silenzio era profondo e per lei, nel pieno della fresca giovinezza, spettrale ed inquietante. Si accostò alla porta e la aprì appena, tentando di non far rumore. Il vecchio non la chiudeva mai a chiave, del resto, cosa avrebbero potuto rubargli? Non aveva niente.
All’improvviso Francesca trasalì. Un grido feroce, molto più simile al ruggito di una belva che alla voce di un uomo, squarciò l’assoluto silenzio.
«Chi è? Chi diavolo è?».
Terrorizzata da quell’urlo brutale e disumano, Francesca si immobilizzò, non osando muoversi di un solo millimetro e misurando il respiro. Il cuore le era balzato in gola. Dopo qualche secondo di spavento e d’attesa, la giovane iniziò a scrutare dalla fessura della porta l’interno della sordida stamberga, che immediatamente le trasmise uno sconfinato e sconfortante senso di miseria e di solitudine. Le sue impressioni furono però infrante da un nuovo e più potente ruggito.
«Chiunque tu sia, maledetto ficcanaso, renditi almeno utile perdio! Prendi il mangime e sfama le bestie!».
Francesca, rianimata da quell’imperioso ordine, trovò il coraggio di rivolgere la parola allo zio, per la prima volta nella sua vita.
«Dove… Dove si trova il…», riuscì a balbettare.
«Sulla veranda! È una grossa busta verde! Sbrigati perdio!».
La giovane afferrò il sacco e sfamò le bestie, affrante da giorni di digiuno, poi tornò alla porta.
«Ho fatto», sussurrò al vecchio sperando che la sua solerzia potesse addolcirlo almeno un po’.
«E adesso vattene! Ma chi diavolo sei, maledetto ficcanaso?».
Francesca chiuse gli occhi, in un impeto d’audacia mise da parte tutti i timori ed entrò a spron battuto nella baracca. Non appena Caronte vide quella creatura sconosciuta entrare così, di forza, nella sua casa inviolabile, inespugnabile, ebbe un violento moto d’ira. Bestemmiò Dio con ferocia e provò ad alzarsi dal letto, ma dentro di sé non trovò le forze necessarie per sostenere lo sforzo e allora, con suo grande disappunto, dovette limitarsi a fissare insolentemente la giovane con i suoi «occhi di bragia», tentando di annientarla, di incenerirla con il solo sguardo.
Francesca, animata da un coraggio che non credeva di possedere, non si lasciò intimorire dagli occhi ardenti, circondati dalle fiamme, di suo zio, e sostenne quello sguardo infuriato.
«È inutile che mi guardi così, con insolenza ed alterigia, digrignando i denti come se fossi un cane randagio. Io non mi muoverò da qui, sappilo. E rispondi alla mia domanda: sei davvero malato?».
Vinto dalla determinazione della giovane, impotente, Caronte si voltò dall’altra parte, stavolta solo mormorando qualcosa che Francesca riuscì a comprendere a stento, dopo qualche istante di intensa riflessione.
«Certo che sono… Malato. Sennò perché me ne starei qui, fermo immobile come uno stoccafisso? Maledizione…».
«Comunque io sono Francesca, tua nipote. Voglio aiutarti».
«Io non voglio aiuto, io non voglio nipoti, non voglio nessuno», sussurrò Caronte continuando a dare ostinatamente le spalle alla giovane.
Francesca, dopo aver rotto il ghiaccio, si accorse all’improvviso del freddo che faceva nella baracca – Caronte era costretto a letto da ben tre giorni – e decise di accendere il fuoco. Terminata in fretta e con efficacia questa operazione – era infatti una donna straordinariamente pratica – afferrò l’unica sedia presente nella stamberga e si piantò con determinazione davanti allo zio. Per nessuna ragione al mondo si sarebbe mossa da lì. Lo scoppiettio della legna confortò un poco Caronte, il cui corpo malandato era scosso in continuazione da lunghi e preoccupanti brividi di freddo.
«Si gela qui dentro», fece notare Francesca stringendosi nelle spalle. La giovane provava nei confronti di quell’uomo appena intravisto un grande affetto ed una sincera e pura pietà. Dopotutto era suo zio, ed intendeva prendersi cura di lui. Per questa giovane anima candida era la prima vera prova della vita. Ne era del tutto consapevole, e non voleva arrendersi, ma portare fino in fondo i suoi buoni propositi.
«Di chi sei figlia?», domandò il vecchio continuando a fissare le tavole di legno della parete, annerite da quasi mezzo secolo di fumo.
«Di Concetta», rispose la giovane rallegrata dalla domanda.
«Lo immaginavo. Vi somigliate».
A Francesca, nonostante gli iniziali e feroci ruggiti, suo zio non sembrava così terribile come lo avevano descritto la madre. Glielo fece notare.
«Mamma ti ha sempre descritto come un mostro, o meglio, come una bestia selvatica. A me non sembri così».
«Che ne sai tu? Non mi conosci. E se questa fottuta malattia non mi costringesse a letto, te l’assicuro, a quest’ora saresti già a casa. Ma da un pezzo».
«Che fai, minacci tua nipote?».
«Ho fatto di peggio nella mia vita, ho minacciato i miei fratelli e ho ignorato i miei genitori. Ma tu perché diavolo sei qui?», Caronte tornò a ruggire, ma senza più riuscire ad impressionare Francesca, oramai sicura e padrona della situazione.
«Guarda che è inutile che gridi, non serve a niente. Ho capito che anche tu, nonostante le dicerie, sei un uomo come tutti gli altri, e per di più malato. Non mi fai più paura, zio».
Sentendosi chiamare zio il vecchio trasalì. Un inedito brivido scosse le sue membra sfinite dal dolore. Non resistette alla tentazione di voltarsi e guardare sua nipote. La trovò bellissima. Forse perché non osservava con attenzione una donna da più di quarant’anni. L’ultima era stata la sua povera Livia.
Stordito, come anastetizzato, Caronte si sentiva del tutto in balia di quella giovane così determinata e generosa. Francesca, non appena vide lo zio voltarsi verso di lei, gli sorrise con dolcezza, e riprese a parlare.
«Al porto l’altro giorno non ti hanno visto e allora si sono insospettiti. La notizia che eri malato si è diffusa presto ed io ho deciso di verificare in prima persona».
«L’hai detto a tua madre?».
La voce di Caronte era mutata di colpo. Dopo più di quarant’anni di grida, il vecchio tornava a parlare normalmente, con un tono pacato e inoffensivo. Francesca era sorpresa di ascoltare dalla bocca dello zio una voce così armoniosa, come se una sinfonia di Beethoven uscisse da una caverna.
«L’ho detto alla mamma e lei ha tentato di dissuadermi, ma, come vedi, non l’ho ascoltata».
«Male. I genitori si ascoltano sempre».
«Anche quando ti consigliano di non andare a trovare un parente malato che a te, personalmente, non ha mai fatto niente di male?».
Caronte tacque, senza però distogliere lo sguardo irrequieto, ma non più feroce, dal volto fresco e grazioso della giovane. Francesca era davvero bellissima. La bontà d’animo si rifletteva nella sua fisionomia gentile, da Madonna raffaelliana.
«Comunque, caro zio, assomigli davvero a Caronte. Ora capisco perché tutti ti chiamano così».
«Ma chi diavolo è questo Caronte? Non l’ho mai capito. Ho sempre creduto che fosse un insulto».
«Ma quale insulto! Dovresti esserne onorato».
«Perché?».
«Vedi, nella Divina Commedia di Dante Alighieri, colui che chiamano il Sommo Poeta, Caronte è il traghettatore dei dannati all’Inferno. Ed è proprio identico a te, spiccicato. Come te ha una lunga barba bianca e occhi feroci. Dante scrive “occhi di bragia”. Ma, soprattutto, è spietato e cattivo. Insulta i peccatori e li batte con il suo remo».
Al vecchio venne una gran voglia di sorridere, ma si trattenne. Va bene la confidenza, va bene il tono di voce calmo, ma addirittura sorridere no.
«In effetti, stando così le cose, direi che mi somiglia abbastanza. Come fai a sapere tutte queste cose? Ti piace leggere?».
«Sì zio, è la cosa che mi piace fare di più, in assoluto».
Che strano effetto faceva al vecchio Caronte parlare con una persona! E questo strano effetto lo intorpidiva, riuscendo persino ad alleviare gli insopportabili dolori fisici.
«Quelli li hai fatti tu?», gli domandò Francesca riferendosi agli animali scolpiti nel legno posti sopra il camino.
«Sì».
«Sono davvero belli, delle piccole opere d’arte».
«E ho imparato tutto da solo», puntualizzò Caronte con orgoglio.
Al centro di quella statica esposizione animale, Francesca notò una piccola fotografia in bianco e nero, nella quale era ritratta una giovane donna sorridente.
«Chi è la donna della foto?», chiese incuriosita allo zio.
«Tua zia Livia», rispose con prontezza il vecchio, il cuo volto si illuminò d’amore.
«Mamma mi ha raccontato la vostra triste storia, tanti anni fa, quand’ero una bambina. Però non ricordo perché non avete avuto figli».
«Perché lei non poteva averne. E questo la addolorò tanto che ne morì. Aveva solo ventitré anni ed era così bella…».
«Il dolore per la sua scomparsa fu così grande che ti allontanò da tutto e da tutti, vero?».
«Sì, è così. Provai subito un odio immenso per tutto quello che mi circondava, per il mondo intero, per l’umanità. Volevo soffrire da solo, andarmene via e punire me stesso per non essere riuscito a salvare Livia, la mia dolce Livia. E nessuno, nessuno doveva distogliermi da questo proposito. Nessuno. Neppure i miei genitori, neppure i miei fratelli».
«Zio, c’è ancora tempo per rimediare, per ricucire i rapporti».
«No, Francesca. Io sto morendo. Lo so, lo sento. Il dolore è troppo forte. E poi… La civetta ha cantato, proprio su questa baracca. Il mio tempo è finito, finalmente. Dal giorno in cui tua zia è morta, non ho avuto che un solo desiderio: morire. E ora ci siamo. Credo d’avere espiato abbastanza su questo misero mondo».
A Francesca, alla bella, generosa e sensibile Francesca sfuggì dagli occhi una lacrima, che le rigò la gota arrossata.
«Francesca, ascoltami bene. È una fortuna che tu sia venuta, ora lo capisco. Ascolta le mie ultime volontà e ricorda. Non voglio un funerale, io non credo in niente. Tua zia Livia non credeva e non è servito. Nonostante le sue preghiere quotidiane è morta così, a ventitré anni, ingiustamente. La fotografia, che è la cosa a cui tengo di più, voglio che sia sepolta con me. Se gli animali ti piacciono così tanto, prendili pure. Per quanto riguarda tutto il resto, il terreno, le bestie, la barca, fatene pure quello che volete, bruciate tutto se vi fa piacere. Non me ne importa un fico secco».
«Ma cosa dici, zio? Non bruceremo niente, non bruceremo niente», gli disse Francesca rassicurandolo, e accarezzandogli con la sua manina delicata la folta e bianchissima chioma.

***

Dopo una dolorosa agonia lunga sette giorni, il vecchio Augusto – era questo il vero nome di Caronte – si spense. Francesca si sforzò di raccogliere, tra i fratelli del defunto, la somma necessaria per garantirgli una dignitosa sepoltura accanto all’amata Livia.
Proprio nell’ultimo giorno di vita di Augusto, Francesca convinse la madre a fare visita al fratello. Concetta, dopo una sanguinosa lotta interiore, cedette alle insistenti preghiere della figlia, ma non riuscì a entrare nella baracca e guardare negli occhi il vecchio morente. Augusto, avvertito da Francesca della presenza della sorella, disse alla nipote: «Va’… Va’ da tua madre, la sento piangere. Va’ da tua madre e… E dille di perdonarmi». Furono queste le sue ultime parole. Subito dopo averle pronunciate, con l’ultimo filo di voce, spirò, chiudendo per sempre quegli occhi dai quali negli ultimi giorni erano scomparse le fiamme.
In città, dopo la notizia della morte del vecchio Caronte, accolta da tutti con sincero dispiacere, iniziò a circolare una divertente storiella destinata ad imprimersi nella memoria collettiva di N., proprio come una fiaba popolare. Secondo questa simpatica, e a suo modo poetica fantasticheria, il defunto, appena giunto nell’aldilà, avrebbe scaraventato in acqua il vero Caronte prendendone il posto, e ingiuriando e battendo con ancora maggior ferocia del precedente nocchiero le povere anime dei dannati.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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