Gli sconfitti – Nudi

Lorenzo – L’imperatore

Un cocktail, un solo, dannato cocktail separava Lorenzo dal tenebroso e profondo oblio dell’ubriachezza. Dondolava pericolosamente sull’orlo del baratro, come un funambolo che ha clamorosamente perso l’equilibrio.
Lorenzo, nonostante anni e anni di alcol e sbornie, non conosceva il proprio limite. Lo superava sempre senza accorgersene, forse senza neppure volerlo fino in fondo.
Tracannò l’ultimo cocktail d’un fiato, ignorando del tutto il sapore di quel liquido colorato. Da un pezzo oramai la sua lingua non distingueva più alcun sapore. Avrebbe potuto bere, senza troppi problemi, persino un bicchiere di benzina.
L’ultimo, dannato cocktail e poi l’oblio, lo sconforto.
Prima però dieci minuti di totale e fanatica esaltazione, da folle, da ossesso. Dieci minuti, poi il deliquio. Andava sempre a finire così.
Adagiato sui gradini di una vecchia chiesa, sferzato dal vento gelido, Lorenzo, circondato dai suoi amici più cari, vomitava e piagnucolava.
Sempre la solita, maledetta storia. I compagni, premurosi e anche un poco infastiditi, si prendevano cura di lui, lo consolavano. Lorenzo, il capo chino a terra, come spezzato dal resto del corpo, su di esso le mani sudice, espelleva tutto l’alcol tracannato con ferocia e noncuranza fino a pochi minuti prima. Biascicava frasi sconnesse che, attimo dopo attimo, si facevano pian piano più chiare, comprensibili. Le accompagnava con lacrime amare, le tipiche lacrime del coccodrillo.
«Almeno voi… almeno voi… voi… Almeno voi mi volete bene, vero? Vero?».
«Certo, certo che ti vogliamo bene, Lorè. Sei un fratello».
«Grazie… grazie amici… E… e Sara? Eh, Sara? Che dite? Mi vuole ancora bene Sara? Eh? Che dite?».
«Certo che te ne vuole. Come può non volerti bene?».
«Ma io non me ne faccio niente, niente del suo affetto! Non me ne faccio niente della sua compassione! Io… io la amo… La amo! Io voglio solo lei… solo lei… lei, lei e nessun’altra è la donna della mia vita… Ah, Sara…».
«Dai, Lorenzo, ormai sono passati cinque anni».
«Sette, sette anni…».
«Ecco, appunto. Sono passati addirittura sette anni».
«Ma io la amerò sempre, sempre! Chissà cosa sta facendo ora… Chissà se pensa a me ogni tanto… Ah, sono stato così… così cattivo con lei!».
«Ora hai Lola».
«Cosa diavolo me ne faccio di quella? Neppure la capisco quando parla… Io penso sempre e solo a Sara. C’è solo lei… solo lei nel mio cuore. Il mio cuore le appartiene!».
«Magari… Un giorno… Chi lo sa, chi può dirlo».
«No, no! È finita, ah… È finita… Vi ricordate… vi ricordate quand’ero l’imperatore… A scuola… Tanto tempo fa… Io ero l’imperatore…».
«Sì, Lorenzo, sì. Tu eri l’imperatore».
«Bei tempi andati! Bei tempi perduti per sempre… Per sempre! Avevo tutto… tutto… Ora non ho più niente… niente. Sono un miserabile».
«Ma quale miserabile… Non essere tragico. Non piangerti addosso. Non è vero quello che dici. Hai un gran bel lavoro. Guadagni bene. Vivi a Londra e sei fidanzato con Lola, una bella ragazza spagnola. Di cosa ti lamenti? Pensa invece a noi, noi che imputridiamo in questa fogna… Soli, senza una donna al fianco».
«No, no! Voi state meglio, meglio di me».
«Sembri proprio un moccioso. Un moccioso viziato».
«Non dite così, vi prego… non dite così. Chi mi vuole bene, chi dice di essere mio fratello non può dirmi certe cose, no…».
«Stavamo solo scherzando. Non fare l’offeso».
«E poi… Ricordatevi che io… io ero l’imperatore!».
«Sì, sì…».
«Voglio mamma… Voglio andare a casa…».
«Su, andiamo. Ti accompagniamo noi. Dai, alzati. Forza. Così…».
Gli amici trascinarono Lorenzo fino a casa. Si teneva in piedi a stento, e i suoi compagni fraterni dovettero faticare non poco. Ci volle quasi un’ora per compiere un esiguo tratto di strada.
L’ubriaco, l’imperatore decaduto, piagnucolava senza ritegno, di tanto in tanto vomitava, declamava pateticamente il suo amore per la donna perduta ed esigeva capricciosamente, in continuazione, manifestazioni di affetto da parte dei suoi amici. Un comportamento penoso, indegno d’un Cesare, seppur decaduto.

Fausto – Lo zerbino

Fausto era più cupo del solito. I suoi amici intuirono subito che qualcosa non andava, e glielo fecero notare. Per qualche secondo Fausto riuscì a trattenersi, poi proruppe.
«Io non ce la faccio più. Io non la sopporto più».
«Flaminia?».
«Sì, Flaminia».
«Questa volta cosa c’è che non va?».
«Tutto. Ne ho abbastanza. Lei pensa che io sia il suo servo, ma si sbaglia, si sbaglia di grosso».
«E su, Fausto, non essere esagerato. E poi, dici sempre così, però, alla fine…».
«No, no, non ce la faccio proprio più. E questa volta parlo sul serio».
«Perché avete litigato?».
«Si è infuriata, letteralmente infuriata, perché non sono andato da lei a Roma. Le ho detto che l’automobile serviva ai miei genitori e lei mi ha risposto: “Non è possibile che a venticinque anni non hai una macchina tua, non sei indipendente”. Con quel suo tono di voce così altezzoso…».
«E tu? Tu cosa le hai risposto?».
«Ho riattaccato il telefono. L’ho persino spento. A quest’ora si starà ubriacando come una spugna… Eh, ma io ne ho abbastanza, ne ho abbastanza. Non si rende conto di quello che faccio per lei. E poi, questo suo insopportabile atteggiamento vittimistico… Deve per forza crearsi problemi che non esistono».
«È tipico delle persone a cui non manca nulla».
«Esatto. Se avessi io le sue stesse possibilità… Domani saremmo dovuti andare al compleanno di una sua amica, ma dopo quello che è successo, non ci andrò da lei».
«Non ci credo, Fausto. Tu borbotti, tu ti lamenti, eppure, alla fin fine, ci vai sempre. Sem-pre».
«Questa volta è diverso, ve lo assicuro».
«Se lo dici tu. A me sembra la solita storia…».
«Non sono mica uno zerbino io! E poi, ve l’ho detto proprio qualche giorno fa, io non farò la fine del marito di Madame Bovary».
«Noi ce lo auguriamo…».
Dopo questa breve sfuriata, gli amici riuscirono a rianimare Fausto. Quando quest’ultimo se ne andò, annunciò addirittura la definitiva rottura con Flaminia.
«Basta, la misura è colma. Domani la lascio. Ve lo prometto».
Andato via, i due amici con i quali Fausto aveva appena trascorso la serata, i suoi due più cari amici, commentarono la situazione.
«Secondo te la lascerà sul serio?».
«Ma chi, Fausto? Fausto che lascia Flaminia? Ma quando mai… Figurati se lo farà per davvero…».
«Hai ragione. Poi come si comporterebbe senza più una donna al fianco, con la quale sfogare i suoi istinti animaleschi? Non troncherà mai la relazione».
«No. Il giorno in cui si lasceranno, sarà perché a lei non starà più bene. Andrà a finire così, fidati».
«Concordo. E credi che domani andrà alla festa?».
«Tu ne dubiti? Certo che ci andrà. E con lei sarà più affettuoso e dolce che mai. Vorrà farsi perdonare per come si è comportato oggi».
«E dice di non essere uno zerbino…».
«Mi dispiace dirlo, ma lo è. Non so se davvero farà la stessa fine del marito della Bovary, con tutto il cuore mi auguro di no, ma è davvero uno zerbino».
La sera successiva, uno dei due amici chiamò Fausto per sapere come fossero andate realmente le cose.
«Allora, Fausto, che fai stasera? Esci con noi?».
«No, devo studiare…».
«Non ci sei andato davvero da Flaminia?».
«No… Te l’avevo detto ieri che non ci sarei andato…».
«E non puoi proprio fare neppure un salto qui da noi?».
«No… Devo proprio studiare…».
«Va bene… Ci sentiamo domani».
«Sì, a domani».
«Buono studio».
«Grazie…».
Proprio mentre Fausto riattaccò il telefono, una voce in lontananza lo chiamò.
«Fausto?».
«Cosa c’è, piccolina mia? Dimmi».
«Mentre mi preparo per andare alla festa, puoi portare Amleto a fare una passeggiata?».
«Certo piccolina mia».
“Piccolina” era il nomignolo con il quale Fausto chiamava la fidanzata. Amleto era il nome del cane di lei.

Gabriele – La sfortuna

Finalmente una donna. Dopo anni e anni di attesa e solitudine, Gabriele aveva trovato una donna disposta ad amarlo. Finalmente.
Gabriele era noto per la sua sfortuna. Una sfortuna tanto clamorosa da divenire persino proverbiale, che si manifestava in ogni minimo frangente, anche il più insignificante e, in apparenza, innocuo. Era ormai abituato alla malasorte e, con il trascorrere del tempo, iniziava a non farci neanche più caso. Non se la prendeva più e così, quando gli capitava una qualunque sciagura, si limitava a un’alzata di spalle. La sfortuna, ferocemente accanita, spietata, crudele e implacabile, gli giocava ogni sacrosanto giorno degli scherzetti subdoli, talvolta sottili, ma pur sempre esasperanti. Si prendeva gioco di lui, proprio come un bambino dispettoso e irrequieto si prende gioco di un malcapitato adulto, tormentandolo senza alcun motivo con i suoi ghigni maligni e con le sue marachelle sleali. Gabriele non reagiva più. Accettava con dignitosa rassegnazione il suo triste destino.
La sfortuna lo aveva privato del padre quando era ancora in tenera età. Gli aveva impedito di coltivare le sue più grandi passioni. Gli aveva strappato la spensieratezza. Insomma, la sfortuna aveva reso la vita di Gabriele una mera sopravvivenza.
L’ennesima e insignificante estate stava scivolando via veloce e silenziosa, ordinaria come tutte le altre. Gabriele, assuefatto al grigiore e all’insoddisfazione, neppure se ne accorgeva. All’improvviso però un lampo, un fulgente lampo. Un bagliore accecante.
In venticinque, insulsi anni Gabriele non aveva vissuto che un amore, peraltro fugace e, ovviamente, piuttosto doloroso. Sognava una donna, ma si era arreso a una vita di profonda solitudine. Non sperava più in nulla. Credeva che sarebbe dovuto accadere un miracolo. A soli venticinque anni era convinto di essere un uomo bell’e finito. Fino a quando, una qualunque notte d’agosto, particolarmente torrida e umida, incontrò Federica. Non solo la incontrò, ma la conobbe e finì addirittura per uscire con lei. La giovane, un paio d’anni più grande di lui, sembrava ben disposta nei suoi confronti. Aveva accettato il suo invito a trascorrere qualche ora insieme, rideva alle sue battute. A Gabriele non sembrava vero.
In riva a un mare placido, tranquillo, su una spiaggia solitaria, in una notte stellata e silenziosa, Gabriele decise di affondare il colpo, di dichiararsi a Federica. In barba alla malasorte! La naturale esaltazione causata da quella conoscenza così intima, lo aveva infatti portato a dimenticare la sfortuna e a farsi intraprendente.
«Federica, tu mi piaci».
Gabriele pronunciò la fatidica frase d’un fiato, quasi a occhi chiusi, senza alcuna esitazione, come quando si strappa un cerotto appiccicato alla peluria. Il cuore gli palpitava e attendeva ansioso una risposta. Federica, dopo aver ascoltato, senza sorprendersi troppo, quella frettolosa, ma decisa dichiarazione, sorrise di un sorriso beato, che abbagliò il pretendente.
Dopo qualche secondo di silenzio, gli rispose:
«Gabriele, anche tu mi piaci».
Il giovane restò di stucco. Non se lo aspettava. Stava accadendo davvero? Oppure tutto era frutto della sua immaginazione?
Gabriele non brillava certo per fantasia, era anzi un uomo straordinariamente pratico e di poche parole.
Nell’istante in cui le labbra frementi di Federica si congiunsero alle sue, così disabituate a ricevere dei baci, Gabriele comprese che tutto, ma proprio tutto, era vero, reale. Un’indicibile e ineffabile gioia, raramente provata prima, lo invase, rendendolo felice. Sì, Gabriele era finalmente felice. Aveva trovato una donna disposta ad amarlo. La sfortuna, sua fedele ed inseparabile compagna, sembrava, per la prima volta, essersi fatta da parte. Non era così. La sfortuna non si era dimenticata di Gabriele. Questo terribile e invisibile carnefice non aveva risparmiato la sua vittima prediletta. No.
Dopo qualche giorno d’estasi, in cui Gabriele recuperò il tempo perduto, riscoprendo a ogni istante una nuova gioia amorosa, la malasorte tornò ad accanirsi su di lui. Aveva solamente aspettato per mostrarsi nel modo più subdolo e crudele.
«Gabriele, devo parlarti».
«Dimmi, Fede».
«Tra due giorni parto per l’Australia».
«Ah, vai in vacanza?».
«No… Non si tratta di una vacanza».
«No? E perché… perché allora vai in Australia?».
«Mi hanno presa per un master».
«Ah… e… quanto tempo?».
«Il master durerà un anno ».
«Un anno?».
«Sì, un anno».
«E… e noi?».
«Non lo so, Gabriele. Non lo so…».

Andrea – La fuga

«Ma come, Andrea… Tu avevi detto che non desideravi altro…».
«Lo so, Cecilia, lo so…».
«Mi hai sempre detto che tutto era perfetto, che eri felice così e che non desideravi altro».
«È vero…».
«E allora? Perché questa decisione assurda? Perché? Dimmelo!».
«Eh, Cecilia… Si è presentata questa occasione e…».
«Come farò da sola?».
«Non lo so…».
«Certo che non lo sai. Come puoi saperlo? Non ci pensi a me? Ah, proprio non me l’aspettavo…».
«Sì che ci penso, ci penso… Lo sai che ti amo…».
«Non sembrerebbe proprio dal modo in cui mi stai trattando».
«Non dire così».
«Andrea, tu non puoi capire, non puoi capire. La fretta con la quale hai accettato quel maledetto posto, nonostante le mie perplessità, e le perplessità di tua madre… Tutta questa fretta mi fa pensare che a te, di me, non te ne importa più niente. Sei così crudele… Sembri non avere neppure un cuore».
«Lo sai che non è così. Non è così…».
«A me invece sembra di sì. Da cosa stai scappando?».
«Non sto scappando. Da cosa dovrei scappare? Te l’ho detto e ripetuto, è stata un’occasione. Come potevo lasciarmela scappare? In un periodo come questo poi. Del resto, si tratta solo di un anno».
«Solo un anno? Solo un anno? Ma lo senti come parli? Solo un anno… Parli come se di noi non ti importasse più niente».
«Ma cosa ho detto? Io non capisco…».
«Come puoi capire tu… Ah, lascia stare, è meglio lasciar stare. È più dignitoso da parte tua. Oddio… Un anno… un anno separati, lontani, lontanissimi, così… Possibile che il pensiero della nostra relazione, il pensiero di noi due, non ti abbia neppure sfiorato? Possibile che la nostra storia, il nostro amore non abbia condizionato la tua decisione?».
«Io… Sì, ho pensato a noi, ma… Era un’occasione così importante… Da cogliere al volo. In fondo, noi, abbiamo una vita davanti e… e si tratta di un solo anno».
«Almeno tornerai a Natale?».
«No… Tornerò tra sei mesi…».
«Trascorrerai lì, in mezzo al deserto, nel nulla, in compagnia di qualche cammello, anche le feste?».
«Sì».
«Oh santo cielo! Ti doveva bastare questo per rifiutare il posto!».
«Dai, non è poi un dramma… Non mi sembra niente di così grave. Tra l’altro, lì, di donne non c’è ombra…».
«Vorrei vedere! Per te non è un dramma, per me si!».
«Non fare così… dai… Mi fai sentire in colpa».
«Devi sentirti in colpa! Quanto soffrirò senza di te… quanto…».
«È solo un anno e poi, tra sei mesi, tornerò per una settimana».
«Sai che consolazione. Ah, Andrea! Da te non me lo sarei mai aspettato, mai. Non ti credevo capace di tali… di tali colpi bassi, ecco. Sì, questo è un crudele colpo basso. Fuggire così, in fretta, alla svelta, senza pensarci troppo, senza curarti delle mie preoccupazioni. Fuggire da tutto ciò che, fino a pochi giorni fa, definivi perfetto, ideale».
Andrea era un giovane laureato in ingegneria. Brillante nello studio e senza alcun vizio. Mai una parola fuori posto, mai un gesto inconsulto. Da circa tre anni era fidanzato con Cecilia, una sua collega.
Andrea amava, più di ogni altra cosa, la tranquillità, la normalità, la quotidianità. A letto mai oltre la mezzanotte, mai meno di sette ore di sonno e ogni domenica, a pranzo dai genitori della fidanzata, che lo adoravano. La sua vita non aveva una sola macchia, neppure piccola, e procedeva lineare, senza scossoni di sorta, come procede un orologio svizzero. Irreprensibile.
Andrea si crogiolava della sua stabilità, della sua regolarità. Non chiedeva altro. Non desiderava altro. Era felice così. Sennonché un giorno, inaspettatamente per tutti i suoi conoscenti, fuggì dal suo bel cantuccio sempre caldo e ordinato, accettando un annuale posto di lavoro nella lontana Algeria, in un cantiere impegnato nella costruzione di una ferrovia perduta nel deserto. Una fuga inattesa, dalla famiglia, dalla fidanzata, dagli amici. In poche parole, una fuga da quella benedetta e ideale tranquillità che, giorno dopo giorno, si era pian piano costruito, conquistato. Perché? Forse perché anche l’individuo più mansueto, diciamo pure domestico, che anela a una vita stabile e pacata, piana, comoda, sente esplodere prima o poi, dentro di sé, quel fuoco del cambiamento, della svolta, tipico della razza umana. Andrea non sarebbe mai stato capace di spiegare in questo modo la sua fuga. Non aveva la perspicacia, né la brillantezza intellettuale necessarie al concepimento di un simile pensiero. E forse era meglio così, perché, in fondo, se il giovane ingegnere fosse stato in grado di giungere a questa conclusione, sarebbe immediatamente sprofondato nel terrore. Le sue certezze si sarebbero sgretolate. La sua vita non sarebbe stata più la stessa.

Gaia – La perfezione

Il Dio cristiano, nel quale Gaia credeva ciecamente, doveva averla benedetta di persona, stendendo su di lei la sua mano benevola e generosa.
Gaia era dotata di una bellezza straordinaria. Bellezza che attirava lo sguardo rapito di ogni uomo e suscitava l’invidia velenosa di tutte le altre donne. Il suo era un volto da copertina, magnifico. Quei denti bianchissimi e perfettamente allineati risplendevano in continuazione. Appena venticinquenne, lavorava presso un’importante casa di moda ed era fidanzata con Valerio, un bel gioielliere di tre anni più grande di lei. Convivevano.
Gaia frequentava i locali più alla moda, andava in vacanza a Miami oppure a Dubai, ed era vicina, almeno lei così credeva, a coronare i suoi due più grandi sogni: il matrimonio e la gravidanza.
Ignorava il vero significato di termini come “fallimento”, “insoddisfazione”, “solitudine”, “dolore”. La sua vita era splendida, perfetta. Gaia era un trionfo esistenziale. Lei lo sapeva e ogni giorno ringraziava il suo Signore per l’immensa ricchezza di cui la circondava. Avvolta nel dorato e ricco velo della perfezione, non sopportava tutto ciò che era imperfetto. Questo la rendeva particolarmente puntigliosa, ai limiti della pignoleria. Così, a casa come anche a lavoro, curava ogni minimo dettaglio, anche il più insignificante. Un piccolo quadro leggermente inclinato la faceva arrabbiare, e subito interveniva ad allinearlo.
Gaia era sempre felice, sempre sorridente, sempre positiva, e questa sua innata predisposizione all’ottimismo si riverberava sul suo aspetto fisico, sempre pregevole, ancora una volta, perfetto. Il suo corpo scolpito, generoso, sinuoso era l’ideale trasposizione della serenità del suo animo.
Gaia scrutava l’avvenire e lo immaginava splendido, meraviglioso. Non poteva essere altrimenti, visto il suo presente rigoglioso e invidiabile. Viaggi transatlantici in paradisi esotici, avanzamenti di carriera repentini e fruttuosi, conoscenze importanti, influenti. Nella sua vita tutto era bello, tutto era così dannatamente perfetto, come in una favola.
Se qualcuno le avesse domandato: «Gaia, cos’è la sofferenza?».
Lei, dopo qualche secondo di silenzio, di titubanza, di riflessione avrebbe risposto: «Non lo so», sorridente e felice, quasi fiera della propria ignoranza.
Ebbene, a questo punto vi chiedo, siete proprio certi che tutto questo sia un bene? Sì? Io per niente, anzi. Al primo, grande dolore, alla prima speranza disillusa – e la vita nasconde subdole insidie nelle quali, prima o poi, cadono anche gli individui che sembrano immuni, quasi miracolati – le persone sempre felici e abituate alla perfezione, proprio come Gaia, soccombono all’istante. Non c’è fede che tenga. Nel profondo dei loro cuori ridenti, si cela un’Anna Karenina che aspetta solamente la giusta circostanza per mostrarsi.
Per quanto riguarda la nostra Gaia, il dramma non era molto lontano. Valerio infatti, il brillante fidanzato, non aveva alcuna intenzione di sposarsi e fare un figlio. Valerio voleva divertirsi ancora a lungo. Voleva essere libero ancora per molto tempo.

Mario – L’ipocrita

«Io proprio non capisco».
«Perché?».
«Ivana si è concessa per una notte, così, per sfogare i suoi istinti. Oggi lui è partito e non si rivedranno mai più».
«Esatto. Cosa c’è che non va? Cosa c’è che ti infastidisce? È tutto così chiaro».
«È tutto fin troppo chiaro. Che volgarità…».
«Volgarità?».
«Sì, volgarità».
«E perché questa situazione sarebbe così volgare?».
«Ivana ha ceduto ai suoi istinti animaleschi senza riflettere, così, con noncuranza, con superficialità».
«Ma noi uomini, caro Mario, volente o nolente, siamo animali».
«Sono il primo a rivendicare la dimensione terrena e bestiale di noi esseri umani, lo sai. Ma noi siamo anche altro…».
«Ovvero?».
«Noi siamo anche spirito, interiorità, e sarebbe questa componente a dover trionfare sempre su quella bestiale. Sempre. Ivana si è resa protagonista di una volgare bassezza senza senso».
«Come sei rigido, come sei severo. Troppo severo per quanto mi riguarda. E poi, non è capitato anche a te?».
«Certo, è capitato a tutti, ma io ho finalmente capito che i soli istinti non contano più, che c’è ben altro».
«Sono d’accordo con te, ma se accade quel che è accaduto a Ivana, secondo il mio punto di vista, non è poi tanto grave. È semplicemente naturale».
«Sì, naturale… naturale, ma, al tempo stesso, sgradevole e pericoloso».
«Addirittura pericoloso?».
«Sì, pericoloso».
«E perché?».
«Perché riguarda una donna».
«Come sarebbe a dire?».
«Dunque, si tratta di una teoria che ho sviluppato in questo ultimo periodo».
«Prego, Mario, parlamene pure. Sono curioso».
«Cercherò di essere conciso e al tempo stesso chiaro. La donna è la coscienza del mondo».
«Magnifica espressione».
«Grazie. La donna ha il compito più importante e nobile: salvaguardare questo povero mondo, mantenerlo intatto. La sua totale emancipazione, diciamo pure, la sua maschilizzazione, non fa altro che mettere in pericolo il mondo. Concedendosi con così tanta facilità, la donna viene meno al suo fondamentale compito, quello di salvaguardia, e scende al becero livello dell’uomo. Abbandonandosi agli istinti animaleschi mette in crisi la stessa esistenza. La donna è altro rispetto all’uomo, la donna è madre, è una creatura di gran lunga più nobile, straordinaria, e non deve cedere ai sensi, alla voluttà, alle tentazioni. Lei ha la possibilità di resistere e di tenere a bada l’uomo. Maschilizzandosi, non fa altro che lasciare via libera all’uomo, che, al contrario, non è affatto capace di resistere. E se la donna rinuncia al suo magnifico ruolo di coscienza del mondo, mette a rischio la stessa esistenza di questo mondo».
«Se ho capito bene, secondo questa tua bizzarra teoria, la donna svolge un compito di controllo dell’uomo».
«Esattamente. L’uomo in quanto maschio è molto più bestiale della donna in quanto femmina».
«Va da sé che se la donna si abbassa al becero livello bestiale dell’uomo, abbandonandosi all’istinto, il mondo va in rovina».
«È proprio così».
«Pensiero piuttosto singolare, ma interessante».
«Guarda quella ragazza, per esempio».
«Quale? Quella bionda con la minigonna?».
«Sì. Quell’indumento, la minigonna, è un esempio della maschilizzazione della donna. Perché provocare così gli uomini? Perché stuzzicare così la loro indole bestiale?».
«Uhm… Quindi la donna dovrebbe coprirsi il più possibile… stando a quanto dici tu…».
«La donna sa essere sensuale anche indossando abiti che la coprono interamente. È la femminilità stessa a renderla sensuale. Comunque, so che il mio possa sembrare un discorso maschilista, ma ti assicuro che non lo è. Anzi, si tratta di tutt’altro. La mia teoria punta a una rivalutazione totale del ruolo della donna nella società. La donna ha il ruolo più importante, il ruolo di coscienza del mondo».
Dopo questa bella dissertazione sulla donna, a tratti oscura, ma originale e degna di nota, Mario e il suo amico, al quale aveva esposto il proprio pensiero, si separarono.
Prima di tornare a casa, Mario si fermò davanti a un palazzo bianco, con la facciata nuova di zecca, di una decina di piani. Afferrò il cellulare e in fretta compose un numero.
«Pronto?».
«Ciao, Vanessa, sono Mario. Ci siamo visti una settimana fa, ti ricordi?».
«Sì, sì, mi ricordo».
«Per caso ti disturbo?».
«No, no, figurati. Dimmi tutto».
«Sono qui sotto, al cancello. Mi apri?».
«Certo, sali pure».
«Grazie, Vanessa, arrivo. Non vedo l’ora di rivederti».
Proprio lui, Mario, l’uomo che pochi minuti prima aveva definito la donna «coscienza del mondo», proclamando la superiorità del genere femminile su quello maschile, condannando le minigonne, usufruiva ora, senza alcun ritegno, delle grazie di una giovane prostituta originaria dell’est Europa. Che svergognato ipocrita.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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