Crisalidi – Capitolo XI

In Sardegna passammo una bella settimana. Mi trovavo bene in compagnia di Marina, la aiutavo a fare i compiti e lei ricambiava impartendomi lezioni di nuoto. Lo sguardo sorridente e benigno di Marta ci proteggeva. Grazie a lei si erano realizzati quei miei giovanili sogni d’amore che credevo sarebbero rimasti per sempre tali e sui quali, prima di incontrare Marta, avevo messo una pietra sopra, senza pensarci più. Alla solitudine mi ero rassegnato e avevo smesso di protestare, di ribellarmi, di dibattermi tentando scioccamente di spezzare le sbarre della mia cella d’isolamento. Avevo accettato, giocoforza, il mio destino da Leverkühn, pur senza aver ricevuto mai nulla, o forse proprio il nulla, in cambio, dal diavolo. Poi la conoscenza di Marta mi aveva mostrato di colpo come quella che credevo fosse una condizione irreversibile, una condanna all’ergastolo, fosse in realtà solo una fase, una fase che non rinnegavo, anzi, perché proprio grazie ad essa riuscivo ora a godere appieno dell’amore di e per Marta, come un condannato a una pena temporanea, uscendo dal carcere, inizia ora a godere appieno della libertà. Ero nato davvero una seconda volta e tutto mi appariva sotto una luce nuova, se non apprezzabile, quantomeno tollerabile, sopportabile. Non avevo certo mutato il giudizio nei confronti di me stesso, del genere umano, del mondo e della vita, no, non sarei mai potuto arrivare a tanto, ma gli spigoli si erano come smussati, i giudizi si erano fatti meno taglienti e severi. Inoltre, per la prima volta nella mia vita, provavo qualcosa di molto simile alla gratitudine.
Non so se la mia indifferenza fosse del tutto scomparsa, di certo aveva assunto una forma nuova, si era fatta meno perentoria, meno assoluta e più relativa, meno sicura di se stessa, tanto per intenderci. Dentro di me, a livello cerebrale come anche a livello fisico, sentivo nascere nuove energie. In quell’estate, ogni sera, dopo il lavoro, mi gettavo nel mare e nuotavo, nuotavo, dando libero sfogo a quelle nuove forze e sentendo i miei muscoli tendersi, indurirsi, rinforzarsi. Riscoprivo il mio corpo e lo assecondavo, lo utilizzavo, quando invece, prima di scoprire Marta, non lo consideravo altro che un involucro, costringendolo a sentirsi, a considerarsi molto più vecchio di quanto in realtà non fosse. Dopo anni e anni vissuti, ma neanche vissuti, piuttosto subiti, immobile, come una crisalide che ha la capacità di arrestare la metamorfosi perché di abbandonare il bozzolo ed esporsi al mondo non ha proprio voglia, o forse ne ha paura, tornavo a muovermi. Avevo riavviato quella macchina impressionante che è il corpo umano, e nella sua dimensione complessiva, fisica e intellettiva, attiva e contemplativa.
Prima di amare ed essere amato da Marta, di ciò che accadeva attorno a me mi limitavo a fare spallucce, quando e se ne venivo a conoscenza, mentre ora iniziavo a ragionarci sopra. Dalle mie posizioni intransigenti, sia chiaro, non mi muovevo, ma da un approccio assiomatico, o forse sarebbe meglio dire dogmatico, ero passato a un approccio critico, interattivo, diciamo così, con quanto accadeva fuori di me, altrove da me, con quanto attraversava il mio campo visivo. Ora vedevo e, soprattutto, osservavo, mentre prima lasciavo passare tutto gettandogli appena uno sguardo fugace, di disprezzo peraltro, e niente di più.
Anche ai libri, ai miei libri, beninteso, mi accostavo in modo diverso rispetto al passato. Dopo la conclusione degli studi universitari avevo preso l’abitudine di avvicinarmi alle opere in modo del tutto disinteressato e gratuito. Me lo ero imposto, perché, non potendo rinunciare ai libri, ai miei libri, nello sforzo impegnativo, talvolta davvero massacrante, di raggiungere quell’indifferenza ideale, quasi ascetica che era divenuto il mio unico obiettivo dopo tante delusioni e altrettante sofferenze, mi ero imposto di accostarmi ad essi in modo superficiale, in un’esperienza di lettura depurata del trasporto psicologico e filologico, un’esperienza di lettura fredda e distaccata, che non contemplasse ulteriori elaborazioni, esaurendosi in se stessa, nell’ebbrezza del momento. Ora tornavo invece a sottolineare i passi che trovavo più interessanti, a prendere appunti, riempiendo i margini di riflessioni ispirate al o dal testo. Pensavo persino di riprendere la penna in mano e raccontare la storia di Liza, come mi aveva suggerito Marta, forse anche quella di Faber. Il primo passo lo avevo compiuto: acquistare un quaderno. Perché sono uno di quei pochi scrittori, o presunti tali, che ancora scrivono a mano, il capo chino sulla scrivania, il corpo innaturalmente piegato in avanti, come un contadino che zappa la terra, stritolando la penna quasi si temesse una sua fuga e spremendo l’inchiostro come il dentifricio dal tubetto, fino a far gridare la mano dal dolore. No, la scrittura non è mai stata un’attività pacifica e conciliante per me, forse perché di scrivere me lo sono imposto, nello sciocco tentativo di emulare quegli scrittori che amo tanto, insistendo fino a farne un vizio, un vizio nocivo come, e forse anche più, il fumo e l’alcol. Per questo motivo ho lottato con tutto me stesso contro me stesso per smetterla di scrivere. Per questo motivo, dopo essermi liberato con tanta fatica di un vizio distruttivo, pur sentendo riaffiorare dentro di me la tentazione della scrittura, non mi ci gettavo a capofitto, ma valutavo vantaggi e svantaggi, pro e contro.
Ho letto troppi libri importanti, praticamente tutti i più importanti (col senno di poi, ne avrei fatto volentieri a meno, avrei vissuto così un’esistenza meno problematica e più serena, inconsapevole e spensierata, perché questi libri mi hanno reciso le palpebre e mi hanno mostrato come stanno davvero le cose), per illudermi che un semplice amore corrisposto possa conferire alla vita di un uomo quel senso che non ha, che non può avere, in nessun caso, neppure si tratti di Cristo, di Napoleone, di Dante o di una madre che ha voluto mettere al mondo un figlio. Pertanto, non credevo che grazie a Marta la mia vita avesse finalmente un senso, o qualcosa del genere. Non si trattava di questo, non poteva trattarsi di questo. Molto semplicemente, oltre a tutto quello che ho scritto finora, il suo amore riusciva a non farmi sentire quel miserabile che mi ero sempre sentito prima di fare la sua conoscenza. Il fatto che una donna, al di là del semplice ed elementare rapporto familiare con mia madre, potesse ritenermi, o meglio, mi ritenesse necessario per lei, era una dose di autostima che non avevo mai provato prima. Allora valgo qualcosa anch’io, mi dicevo quando Marta mi abbracciava con forza o mi baciava con trasporto, magari dopo un’intera giornata passata senza vedermi.
Tutto quello che scrivo qui e ora lo dissi anche a lei, ma senza avanzare la pretesa e senza lasciarmi tentare dall’illusione che potesse comprenderlo davvero, sino in fondo. Non perché Marta fosse sciocca o frivola, no di certo, ma perché due persone, per quanto intime, per quanto legate da un reciproco sentimento profondo e intenso, non possono comprendersi mai del tutto. Restiamo sempre soli alla resa dei conti, trascinandoci dentro una Siberia dove mai nessuno metterà piede, perché non può mettervi piede, anche se lo volesse, anche se lo desiderasse con tutto il suo essere. In questo senso, la fine della lunga e fraterna amicizia tra me e Faber ne è un esempio lampante.
All’interno di un uomo resiste sempre una vasta, gelida e sinistra area inesplorata, talvolta sconosciuta persino al proprio io. E può capitare che resti tale per sempre, voglio dire per tutta la vita, perché non a tutti è concesso di spingersi fin laggiù. Inoltre, a chi è permesso, a colui che il caso decreta idoneo all’esplorazione della propria Siberia, tornare indietro non è semplice, anzi, sono altissime le probabilità di restare intrappolato in quel territorio ostile e di morirci. È ciò che mi è accaduto ed è forse ciò che è accaduto anche a Marta dopo l’improvvisa e drammatica fine della nostra storia. Non lo saprò mai con certezza, ma tendo a crederlo.
Amavo Marta e iniziavo ad amare anche Marina, e non solo in quanto figlia di Marta, ma in quanto persona. A volte concepiva ed esprimeva idee davvero prodigiose e in alcuni momenti nel suo sguardo vedevo splendere una disillusione da donna fatta e finita, quella disillusione che negli occhi di sua madre non vedevo più, fortunatamente. Un dato che mi portava a pensare come forse non avessi solo ringiovanito Marta, ma la avessi anche ricostruita, riedificata, proprio come lei aveva ricostruito, riedificato me.
Tornando a Marina, la lontananza dal padre doveva farla soffrire, anche se di questa sua sofferenza non dava mai prova, subendola in silenzio. Quando qualcosa la infastidita, la irritava, si limitava a stringere forte le labbra e ad ammutolire. Era capace di starsene un’ora senza spiccicare una parola, fin quando non le era passata. Aveva solo dieci anni, ma doveva aver lavorato già molto, e con ostinazione, sul proprio dolore, imparando a domarlo. Adoravo questo suo aspetto, come adoravo anche la sua totale indipendenza dalla tecnologia. Rispetto ai suoi coetanei, nati rincoglioniti, o rincoglioniti subito dopo la nascita, per la mancanza di pazienza dei genitori, rincoglioniti anch’essi e per di più frustrati, Marina se ne fregava di smartphone, di tablet, di personal computer e la televisione non la guardava mai con grande interesse. Era una bambina pratica, che le cose doveva vederle di persona e toccarle con mano, per questo motivo, per questa sua curiosità da ricercatrice si trovava almeno due spanne sopra i bambini della sua stessa età.
Non so fino a che punto si trattasse di una questione di attitudine, di certo era rilevante l’incidenza educativa. Passare la maggior parte delle sue giornate più con i nonni che con la madre le aveva fatto bene, era stata una salvezza per lei, almeno dal mio inattuale punto di vista. Non che non avessi fiducia in Marta, era semplicemente un fatto di generazioni, della differenza tra un passato pratico, conficcato nella realtà come un albero nella terra, e un presente astratto e virtuale, sospeso in un altrove che non esiste e che, quando fa ritorno nella realtà, la maggior parte delle volte lo fa per combinare qualche danno irreparabile.
Iniziai ad affezionarmi a Marina da subito, da quel pomeriggio al mare passato insieme. Ogni volta che vedevo Marta la mia prima domanda riguardava la figlia: le chiedevo come stava, dove si trovava, cosa faceva. Durante quella settimana di vacanza in Sardegna poi, iniziai davvero ad amarla, e quando la sera passava almeno mezzora al telefono con suo padre, provavo qualcosa di molto simile alla gelosia. Anch’io cominciavo a sentirmi padre, ma con la consolazione che Marina non era davvero mia figlia: un collante potente, al contrario di quanto si possa immaginare. Perché, come scrive Joyce nell’Ulisse: «La paternità, in quanto generazione cosciente, è sconosciuta all’uomo. È uno stato mistico, una successione apostolica, dall’unico generatore all’unico generato. Su quel mistero e non sulla madonna che lo scaltro intelletto italiano ha gettato in pasto alle genti d’Europa è fondata la chiesa e fondata irremovibilmente in quanto è fondata, come il mondo, macro e microcosmo, sul vuoto. Sull’incertezza, sull’improbabilità».
L’ultima sera della nostra vacanza in Sardegna, prima di addormentarsi, Marina, già coricata, mi fece chiamare da Marta. Voleva parlarmi.
– Me ne sono accorta che quando parlo con papà sei geloso di me, ma io voglio bene anche a te. Ancora non so se più, meno o tanto quanto lo voglio a mio padre, ma voglio bene anche a te. Forse di più, perché so che tu di amare la mamma non smetterai mai, – disse senza alcun timore né timidezza, con un tono deciso, sicuro, addormentandosi subito dopo. Emozionato, mi chinai su di lei, la baciai sulla testa e le augurai sottovoce la buonanotte.
Marta mi attendeva sul balcone del nostro appartamento, per goderci in compagnia di due birre ghiacciate l’ultima sera di vacanza. Dopo averla baciata e aver bevuto un primo, lungo sorso di birra, le riportai alla lettera le parole di Marina. Si erano impresse nella mia testa all’istante, come il passo illuminante di un libro.
– Non credevo proprio che potesse affezionarsi tanto a te, e in così poco tempo. È una bambina così schiva e diffidente… è come se stasera avessi scoperto un’altra Marina, – disse Marta emozionata e sorpresa tanto quanto me.
– Ne sono davvero felice. Significa molto per me essere riuscito a conquistare la fiducia e l’affetto di una bambina così intelligente, sveglia e pratica, superiore non solo a tutti i suoi coetanei, ma anche a molti adulti, – risposi trascinato dall’entusiasmo per l’inattesa confessione di Marina.
– Deve aver preso molto da suo nonno, grazie al cielo. Sei il primo uomo che le faccio conoscere dopo la separazione dal padre, e Marina deve aver compreso tutta l’importanza di questo passo, che non pensavo avrei mai fatto. Ma ho trovato te…
– È stata una scelta coraggiosa la tua. In questi mesi ti sei resa protagonista di una serie di scelte coraggiose, – la interruppi ripensando a tutto quello che era avvenuto tra di noi in quei mesi, e a cui non sapevo dare una spiegazione logica, razionale. Era stato tutto spontaneo, era accaduto tutto senza che mi soffermassi a riflettere se fosse davvero ciò che volessi, ciò che desiderassi oppure no. Del resto, non era una questione di volontà, non può mai essere una questione di volontà, ma di necessità. Io di Marta avevo bisogno, lo avevo capito subito, dal primo momento in cui il mio sguardo era caduto su di lei, sebbene nelle ore immediatamente successive al nostro primo incontro avessi tentato di convincermi del contrario. Ed ero certo che per lei fosse la stessa cosa, come aveva notato da subito Liza. No, non c’era spazio per la logica, per la razionalità, ma solo per una sincera spontaneità, quella spontaneità propria dei fenomeni naturali.
Marta bevve un lungo sorso di birra, si alzò dalla sedia, si accomodò sulle mie gambe, che, per quanto magre, sostenevano con facilità la sua leggerezza, mi baciò e infine mi parlò di un’idea bizzarra, la definì proprio così, bizzarra, che le frullava in testa dalla mattina.
– State proprio bene insieme, tu e Marina, sembra che vi conosciate da tanto tempo… Così, pensavo che tra un po’ potremmo trasferirci a casa tua, ovviamente se lo voglia anche lei, – sussurrò accarezzandomi la guancia.
– Si può fare, – risposi senza pensarci su neppure un istante. Vidi gli occhi di Marta brillare di gioia.
– Davvero? – domandò quasi con incredulità.
– Certo. La mia casa è troppo grande per una sola persona.
– Sapremo essere discrete, per niente invadenti, te lo prometto.
– No, non è possibile, Marta. Ormai la mia vita l’avete invasa e stravolta. Mi siete accanto sempre, anche quando non ci siete, anche quando sono a lavoro, e non si può più tornare indietro. La mia casa è diventata la vostra nel momento in cui, quella sera d’inizio marzo, ne hai varcato la soglia, anche se non sapevo dell’esistenza di Marina, ma la presagivo. Ora non dovete fare altro che prendervi ciò che vi appartiene da quell’istante, – dissi con un impeto maldestro, come se fossi ubriaco.
Lei, la donna che mi aveva riportato alla vita, voleva condurre sé e il bene più prezioso che possedeva in quello che era stato il tempio della mia solitudine, trasformandolo in una vera casa, che ora sarebbe diventata davvero mia, perché nostra.
– Neppure nei miei sogni più romantici ho mai amato un uomo come amo te in questo momento, – disse Marta, commossa, gli occhi così lucidi e colmi di pianto da sembrare laghi, laghi in cui la mia immagine si rifletteva, o meglio, si immergeva, ubriacandosi delle lacrime di gioia che contenevano.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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