Crisalidi – Capitolo X

Marta riuscì persino a trascinarmi al mare, la prima domenica di giugno davvero calda, ben oltre i trenta gradi. Quella mattina si presentò a casa mia con un costume e un paio di infradito da uomo. Ne ero sprovvisto. Fu per me un momento molto particolare, addirittura traumatico, non esagero. Ho il mare a due passi da casa, d’accordo, lo sento e lo distinguo nitidamente dalla mia camera da letto, ma non frequentavo la spiaggia in qualità di bagnante dall’ultimo anno di liceo. Avevo diciannove anni. Così, quella domenica di giugno, in compagnia di Marta, fu come la prima volta.
Mi sentivo ridicolo con quel mio corpo scarno e scarabocchiato, con quel mio pallore cadaverico. Un frequentatore degli stabilimenti balneari deve avere quantomeno una discreta considerazione di se stesso per esporsi nudo allo sguardo di tanti sconosciuti, una considerazione che io non potevo avere.
– Mica guardano tutti te, – rispose Marta quando le confessai il mio disagio.
Non riuscivo ad aprire gli occhi, neppure sotto l’ombrellone, e quella luce così forte, che pioveva a picco sopra di me, mi stordiva e quasi mi ubriacava. Pensai a Meursault, il protagonista dello Straniero di Camus, agli influssi malefici del sole algerino su di lui, tanto, troppo simile a me, e la tentazione di fuggire via dalla spiaggia, di tornarmene a casa fu così forte che mossi persino un passo. Ma proprio in quel momento sentii la sabbia calda scricchiolarmi tra le dita dei piedi e il calore eccessivo contrastato dal freddo salutare della crema protettiva che Marta aveva iniziato a spalmarmi sulla schiena senza preavviso, cogliendomi di sorpresa. Allora decisi di restare.
Marta si gettò subito in acqua, io non la seguii. Feci qualche passo sul bagnasciuga, osservandola sguazzare come un pesce, aspettando che la pelle assorbisse la protezione, poi mi sdraiai sul lettino, sotto l’ombrellone, leggendo un libro.
Stavo bene, ma davvero bene, quando ci si sente in piena salute e in pace con se stessi e con il mondo intero, come non mi accadeva da tempo, forse dall’ultimo esame della laurea magistrale, cinque anni prima, che concludeva il mio percorso in due anni netti, precisi ed era l’ennesimo trenta di un cammino perfetto e inatteso dopo il disastro della triennale, raddoppiata senza neanche sapere perché. E questo grazie a lei, Marta. Iniziavo a considerarla una specie di miracolo. Mi aveva resuscitato, Lazzaro ancora vivo fuori ma morto dentro, crisalide rinchiusa, rinserrata nel proprio bozzolo, dal quale non credevo sarei più uscito.
Posai il libro, perché di leggere non avevo più voglia né bisogno, e mi accesi una sigaretta. Guardavo il mare placido, cercando lei. Aveva raggiunto la barriera degli scogli posta a un centinaio di metri dalla riva. In piedi, mi salutava con ampi gesti delle braccia. Il suo corpo bagnato splendeva alla luce del sole. Risposi al saluto.
Quando Marta uscì dall’acqua, di lì a poco, afferrò il mio lettino, con me sopra, e lo trascinò al sole. Non protestai. Quindi si sdraiò sul suo di lettino, accanto al mio.
– Niente doccia? – domandai chiudendo gli occhi feriti dal sole.
– No, niente doccia. Mi piace sentire il sale sulla pelle, – rispose soddisfatta del suo primo bagno stagionale, aggiungendo poi che l’intero anno viveva proprio per quel momento, per quel primo tuffo, per quelle prime bracciate.
– Chi ti ha insegnato a nuotare?
– Mio padre. È un lupo di mare e quand’ero bambina aveva una piccola barca, è iniziato tutto da lì. Sebbene mia madre avesse una grande paura per me, papà mi ha insegnato a nuotare a largo, nel mare aperto, senza mettermi i braccioli, ma sostenendomi lui. Non ci crederai, ma non ho mai avuto paura dell’acqua, neanche la prima volta. Mi dimenavo come un cagnolino inesperto, ma c’era mio padre con me e ho sempre avuto una fiducia incondizionata nei suoi confronti. Se avessi avuto anch’io una piccola barca, come quella che aveva allora papà, avrei adottato lo stesso metodo con Marina. Il tuo maestro invece chi è stato?
– Nessuno, e infatti sono un disastro in acqua. Riesco a stento a stare a galla, – risposi con un sospiro, davvero dispiaciuto di non essere alla sua altezza nel nuoto.
– Bene, vorrà dire che da oggi sarò io il tuo maestro, – mi rassicurò Marta.
– Te l’ho mai detto che ho il brevetto da bagnino? – domandò poi come se volesse dimostrarmi di essere davvero in grado di ricoprire quel ruolo d’insegnante per il quale non si era proposta, ma imposta, senza lasciarmi alcuna possibilità di scelta.
– No, non me ne hai mai parlato, – risposi, ormai del tutto in balia del sole, che mi cuoceva a fuoco lento, implacabilmente. Sentivo il mio cervello esaurirsi, spegnersi, a poco a poco, come se venisse prosciugato da quella luce violenta, alla quale non potevo opporre resistenza.
– Dai sedici ai diciannove anni ho lavorato d’estate come bagnina in un parco acquatico di Anzio.
– Hai mai salvato qualcuno?
– Una volta, un ragazzo che non sapeva nuotare, ma che voleva essere all’altezza degli amici. Era un mio coetaneo e lo conoscevo perché andavamo alla stessa scuola. Gli ho salvato la vita e non solo non mi ha detto grazie, ma si è persino arrabbiato con me. Si vergognava che una ragazza lo avesse soccorso e tirato fuori dalla piscina nella quale stava annegando. I suoi amici risero di lui, io mi arrabbiai con loro e lui a quel punto si arrabbiò ancora di più con me. La presi male, me ne andai dal parco acquatico senza dire niente a nessuno, tuffandomi in mare e nuotando per ore per smaltire la rabbia.
– Anch’io da ragazzo frequentavo i parchi acquatici con i miei amici, ma non ho mai avuto il coraggio di mettermi alla prova, di rischiare come il ragazzo che hai salvato. Del resto, non mi sono mai distinto per intrepidezza, per audacia. Certo, se ci fosse stata una bagnina bella come te pronta a soccorrermi avrei osato.
– Primo, quello non è coraggio, ma stupidità. Secondo, a sedici anni ero come sono adesso, quindi tutt’altro che bella.
Con la mia mano destra afferrai la mano sinistra di Marta e la strinsi forte. Quel gesto doveva sostituire parole che sarebbero state troppo banali, persino per due innamorati. Marta lo comprese, perché la vidi sorridere al sole. Quel sole che, se aggrediva me, accarezzava lei con delicatezza e affetto, come un padre accarezza la figlia.
– Devi avere un bel rapporto con tuo padre, – dissi ispirato da quell’associazione.
– Sì, lui è il mio uomo. Non ho mai sofferto troppo la fine delle mie storie d’amore, neppure quella con Marco, perché tanto sapevo che un uomo per me c’era sempre, mio padre, e non mi avrebbe mai lasciata, non mi avrebbe mai tradita, né io avrei mai lasciato o tradito lui. Non ha mai alzato la voce con me, mai. Quando mi rimproverava, lo faceva con garbo, quasi ne fosse dispiaciuto. Ricordo bene il giorno in cui dissi ai miei genitori che con Marco era finita, che Marina sarebbe cresciuta senza vedere uniti i suoi genitori. Ammisi di aver fallito, di non essere stata alla loro altezza, di averli delusi. Sul volto di mia madre vidi passare un’ombra di disappunto, persino di sdegno, lei che si era sforzata con tutta se stessa di tenere unita la famiglia, sacrificando la propria volontà e, soprattutto, la propria dignità nei momenti difficili, critici, passando sopra ai tradimenti di mio padre, che pure conosceva. Papà invece mi abbracciò forte e mi disse che non lo avevo deluso, che mai avrei potuto deluderlo. A volte penso a quando non ci sarà più e provo un dolore così forte da piangere. Allora prego Dio che prenda me prima di lui. So bene che non avrò la forza di superare la sua morte, – concluse Marta, adombrandosi di colpo.
Non seppi cosa risponderle, ma le strinsi ancora più forte la mano, ormai completamente asciutta e salmastra. Non potevo certo parlarle del mio rapporto con mio padre, dirle che avevo desiderato la sua morte più di una volta, quando tornava a casa così ubriaco da non reggersi in piedi e mia madre ne piangeva in silenzio, senza versare una sola lacrima, perché ormai non ne aveva più. Aveva prosciugato la sua sorgente, e da tempo.
– Dove vogliamo andare in vacanza? – domandò Marta cambiando discorso. Aveva la straordinaria capacità di recuperare, nel giro di pochi secondi, la serenità e la leggerezza perdute a causa di una tristezza improvvisa. Provavo una grande invidia per questa sua abilità. Se accadeva a me, ci rimuginavo sopra per ore e senza riuscire a pensare ad altro.
– Dove vorresti andare?
– Vorrei tornare in Sardegna.
– Allora vorrà dire che la settimana dopo Ferragosto, quando la libreria resta chiusa per ferie, andremo in Sardegna. Tu, io e Marina.
– Ma solo se lo vuoi davvero, non voglio costringerti.
– In queste settimane lavorerò per volerlo davvero, – dissi con ironia.
– Scemo, – concluse Marta ridendo, di quel suo riso pieno, contagioso, che mi metteva di buon umore come la lettura del Don Chisciotte.
Ci assopimmo entrambi, risvegliandoci più o meno all’ora di pranzo. Nello sguardo annacquato di Marta vidi fame e glielo feci notare, mettendomi a sedere sul lettino, di nuovo all’ombra, e accendendomi una sigaretta.
– È vero, ho fame, ma di te, – rispose Marta saltandomi addosso e baciandomi con quel trasporto che era la manifestazione più chiara della sua giovinezza ritrovata.
– Vieni con me, – disse poi con un tono di voce carezzevole, voluttuoso e al tempo stesso perentorio. Un mio rifiuto non era contemplato e mi arresi, ma con la volontà di arrendermi, sapendo che mi attendeva qualcosa di meraviglioso.
Marta mi prese per mano e iniziammo a correre come due ragazzini verso il mare, vuoto a quell’ora. Eravamo le due sole creature in movimento in quell’atmosfera immobile. Piombammo in acqua e mi sentii mancare il respiro, come se in un colpo solo avessi esaurito tutta la mia riserva d’ossigeno. Mi venne in aiuto Marta, avvinghiandosi a me e attaccando come una ventosa la sua bocca alla mia, trasferendo a me il suo respiro abbondante.
– Non ho mai fatto l’amore in acqua, pur avendolo sognato tante volte, e voglio che sia con te la prima volta, – mi sussurrò all’orecchio con una furia che non rivedevo in lei da tempo, dalla nostra prima notte d’amore.
E così ci unimmo, ci compenetrammo nel mare. Uscii dall’acqua sfinito, come mai mi era capitato dopo un rapporto sessuale. Mi gettai sul bagnasciuga, stanco morto, respirando con affanno, ma con un sorriso invincibile sulle labbra. Sentivo dentro di me la spavalderia necessaria per poter guardare il sole dritto negli occhi, in atto di sfida, ma non lo feci, perché iniziavo a percepire un certo affetto da parte sua nei miei confronti. Mi guardava con indulgenza e, per la prima volta in quella giornata, come il compagno di Marta, la sua creatura.
Marta restò ancora qualche minuto in acqua. Uscendo, si avvicinò a me e mi colpì con un calcetto sul costato, domandandomi se fossi ancora vivo. Riaprii gli occhi e in quel momento la vidi enorme, una creatura piovuta sulla spiaggia da tutt’altra epoca, un’epoca perduta da secoli e che riviveva in lei, nel suo corpo bagnato e teso, le mani puntate sui fianchi, i capelli dai quali precipitavano grosse gocce d’acqua salmastra. Baciai il collo di quel piede che mi aveva colpito e poi mi alzai, stirandomi come se nascessi ora dal grembo del mare. Abbracciai Marta e le dichiarai per la prima volta in quella giornata il mio amore.
– Ora ho fame di cibo, – disse quando riprendemmo la via dell’ombrellone.
Avevamo una borsa termica strapiena di frutta. Dopo lo sforzo fisico avrei mangiato volentieri una bistecca, ma non avevo previsto un tale dispendio di energie. Rigurgitai con foga mele, pesche, albicocche, ciliege e, dopo il caffè, seguito dalla consueta sigaretta, mi addormentai di un sonno pesante, come se fosse notte. Sognai persino, ma non ricordo cosa.
Restammo in spiaggia fino al tramonto, che osservammo seduti a riva, sorseggiando birra e fumando una sigaretta dietro l’altra, Marta stretta a me, con indosso una felpa, il cappuccio tirato sopra la testa, sui capelli umidi.
– Mangerei proprio una bella bistecca, – disse bevendo l’ultimo sorso di birra e schiacciando il mozzicone della sigaretta sulla sabbia.
– Io l’avrei mangiata già a pranzo… – sospirai con un certo rimpianto.
Decidemmo allora di tornare a casa, farci la doccia, prendere la macchina di Marta e regalarci la migliore bistecca di Nettuno e Anzio. Infilandomi la maglietta sentii la mia pelle scricchiolare a causa del sale, ben più tesa del mattino, per via dell’abbronzatura. Non ero mai stato così felice (provo persino imbarazzo a scrivere questa parola). Mi era impossibile non sorridere, mi sentivo quasi sciocco. Non avrei lasciato andare via Marta per niente al mondo. Lei lo sapeva, lo percepiva, lo vedeva nei miei occhi sempre troppo sinceri, e me ne era grata.

Crisalidi , , , , , ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

Precedente Crisalidi - Capitolo IX Successivo Crisalidi - Capitolo XI