Crisalidi – Capitolo VII

Via Carlo Cattaneo visse, nei giorni immediatamente successivi alla tragedia, un’invasione mediatica senza precedenti. C’erano giornalisti e telecamere ovunque, sbucati fuori dal nulla da un giorno all’altro come funghi, velenosi. Provarono a intervistare anche me, qualcuno doveva aver fatto il mio nome. Mi braccarono giorno e notte con un’insistenza e un’insolenza disgustose, quasi fossi io il mostro. Li evitai con la scaltrezza della preda che conosce il territorio meglio del predatore, ma capitò comunque di arrivare al confronto fisico e allora riuscirono a cavarmi fuori, dallo stomaco più che dalla bocca, insulti di ogni genere. Per due giorni fui costretto a barricarmi in libreria fino a notte inoltrata, in attesa di sgattaiolare fuori e rintanarmi in casa sfruttando il coprifuoco.
Per due giorni non vidi Marta e mi sforzai di tenerla fuori da quella brutta storia, senza fare il suo nome agli inquirenti, che, del resto, ricorsero alla mia testimonianza una volta sola, ricostruendo i fatti, quella notte stessa. Marta si era rinchiusa in bagno, sconvolta, terrorizzata, gli occhi spalancati come se le avessero reciso le palpebre, incapaci di piangere.
Mi viene la nausea pensando a come i media lucrino, banchettino sulle tragedie. Ovunque ne accada una sguinzagliano i loro avvoltoi che si fiondano senza rispetto né ritegno sui cadaveri. La mattina successiva all’omicidio-suicidio, affacciandomi alla finestra della cucina e vedendo tutta quella gente interessata nella via, sentendomi subito assediato, vomitai nel lavandino. Non vomitavo da anni, dall’ultima colossale sbronza, che non ricordavo neppure in quale occasione fosse avvenuta talmente era lontana.
Anche Luca reagì con cinismo e non me lo sarei mai aspettato da lui. Che diamine, per quanto fosse diverso da me, era pur sempre un umanista.
– Quanto ci scommetti che in questi due, tre giorni venderemo più che in un mese intero? – domandò quella stessa mattina appena entrai in libreria, senza neanche salutarmi.
Lo incenerii con lo sguardo e gli raccontai come la scorsa notte avessi assistito al dramma, con la precisa intenzione di farlo sentire una merda. Lo vidi chinare il capo, costernato, e scusarsi delle sue stupide parole. Ma da quel momento in poi, quando mi avrebbe consigliato un libro, mi sarei limitato ad alzare le spalle e a lasciarlo lì, dove meritava di stare ovvero ovunque tranne che in casa mia.
Due giorni, non di più, durò l’invasione barbarica, perché il circo macabro è sempre in movimento e non si ferma mai più di quarantotto ore nello stesso posto, sempre in cerca di una nuova tragedia, di una nuova catastrofe, a meno che non si tratti del crollo di un ponte autostradale. Se penso a quanto sia caduto in basso questo maledetto belpaese rabbrividisco. Una terra desolata dalla singolare forma di uno stivale, popolata da milioni di esseri apparenti e vuoti – nient’altro, nessun’altro. E la pochezza del presente cancella quel poco di buono che è stato fatto nel passato. Dante, Leopardi, Giotto, Raffaello, Michelangelo… non ce li meritiamo.
Non vomitavo da tempo e da ancora più tempo non piangevo. Piansi pensando a quei due poveri bambini, e so bene che se non ci fosse stata Marta non avrei né vomitato né pianto, mi sarei lasciato scivolare tutto addosso, incurante degli eventi, gelido e indifferente. Mi domandavo come potessero esistere ancora persone ottimiste, che hanno fiducia in se stesse e negli altri, nell’avvenire, come potessero esistere ancora preti che dai loro pulpiti predicano l’esistenza d’iddii e mondi sovrannaturali. D’accordo l’atavico bisogno umano di favole, di illusioni, di menzogne in sostanza, ma a tutto c’è un limite. Andate a parlare d’amore, di perdono, di solidarietà, di tolleranza a quei due bambini disgraziati. Aspettate qualche anno e vi seppelliranno sotto i loro risi maligni.
Temetti sul serio che la mattanza alla quale avevamo assistito potesse segnare la fine della mia relazione con Marta, soprattutto dopo le parole che mi disse al telefono la prima sera che fui costretto a restare barricato in libreria: – Voglio che tu sappia che se anche fossi a casa questa sera non verrei da te.
Ma i miei timori si rivelarono infondati. Non solo Marta non si allontanò da me, ma di me parlò persino ai suoi genitori e a Marina. Tra qualche giorno avrei dovuto prendermi un pomeriggio libero per trascorrerlo in compagnia di madre e figlia. Alla possibilità di rispondere no a una proposta o a un desiderio di Marta neppure ci pensavo. Ma qualcosa tra di noi dopo quel drammatico evento era cambiato. Non facevamo più l’amore tutte le volte che ci vedevamo, come nella prima settimana della nostra relazione. Molte sere le passavamo parlando, leggendo, scambiandoci innocue carezze e nient’altro. Era bello anche così, anzi, era ancora più bello così.
– È facile fare l’amore con una persona. La cosa davvero difficile è trovarsi da soli in una stanza e non spogliarsi, restare vestiti e sfiorarsi soltanto. Se riusciamo a fare questo vuol dire che c’è qualcosa di vero in quello che ci siamo detti, – disse Marta la prima volta che passammo la serata senza fare l’amore.
Cominciai a leggerle racconti e romanzi di Hermann Hesse, per iniziarla con delicatezza alla letteratura. Mi ascoltava tenendo gli occhi chiusi, le labbra improntate a un sorriso modesto, discreto.
– Così mi lascio trasportare con maggiore facilità dalla tua voce e dalle parole di Hesse, – disse spiegandomi la ragione di quella sua cecità volontaria.
Le nostre non erano semplici letture. Con la mia voce prendevo Marta per mano e la guidavo alla riscoperta di una concezione della vita primordiale, femminile, che affonda le radici nella terra e permette di ristabilire con la natura un rapporto diretto, sconosciuto alla nostra epoca, di trovare conforto e appagamento in piaceri modesti. Anche noi, come gli eroi di Hesse, eravamo viandanti, incamminati su sentieri dove la felicità è a portata di mano e si lascia afferrare e godere semplicemente. Ero felice e orgoglioso di presentarle creature straordinarie, delle quali Marta apprendeva con fanciullesco entusiasmo le storie e le avventure, interrompendo di tanto in tanto la lettura con domande mai sciocche, mai banali, che dimostravano come sapesse giungere al senso ultimo, più profondo, delle opere.
Marta manifestò inoltre il desiderio di vedere la casa in cui sono nato e cresciuto, la casa dei miei genitori, la mia vera e sola casa. Lo esaudii una domenica in cui sapevo che i miei sarebbero stati impegnati dalla mattina alla sera in una cerimonia, un battesimo o un matrimonio, non ricordo con esattezza.
L’abitazione si trova al di là del bosco di Foglino, in aperta campagna, dove i miei nonni avevano ettari ed ettari di vigna. Con l’approssimarsi della fine decisero di dividere la terra tra i loro sette figli, quattro maschi e tre femmine, e ognuno vi edificò sopra la propria casa. Sono dunque cresciuto circondato dai miei zii, ma, per quanto possa sembrare strano, non ho mai avuto un rapporto intimo con nessuno di loro. La famiglia di mio padre è schiva, ritrosa, di poche parole, è questo il suo tratto caratteristico. Tra i sette fratelli non ho mai visto grandi manifestazioni d’affetto, e immagino che non ci siano state neppure in occasione della morte dei loro genitori.
Vidi Marta muoversi per le stanze adagio, con circospezione e osservare con attenzione le vecchie foto dei miei genitori e di me bambino, come se si trovasse all’interno di un museo e ammirasse delle opere d’arte.
– Qui avevo più o meno l’età di Marina, dieci anni, – dissi in riferimento a uno scatto che Marta non si era limitata a osservare, ma che aveva afferrato, avvicinandolo a sé. – Pensa, ero il più alto e grosso di tutti, già con qualche pelo sulla faccia. Sono praticamente rimasto come allora, eccezion fatta, ahimè, per i capelli, anzi, se possibile, mi sono addirittura rimpicciolito. Il mio sviluppo è stato troppo precoce, troppo rapido e mi sono esaurito presto. Come l’affamato che, finalmente a tavola, immagina di farsi una grande abbuffata e invece, dopo un paio di bocconi rigurgitati in fretta, senza neppure masticare, è già sazio e al pensiero di altro cibo ha la nausea. All’epoca, quando tornavo da scuola, al contrario dei miei compagni non pensavo, che so, ai videogiochi, che allora iniziavano a spopolare, ma alla campagna. Non avevo che la campagna in testa. Indossavo gli abiti da battaglia, una tuta rattoppata, una felpa vecchia, mettevo ai piedi gli stivaloni di mio padre e mi scapicollavo nei campi, arrampicandomi sugli alberi, in cerca di nidi che osservavo per ore, come incantato, senza osare toccarli, scovando frutti che divoravo come se non mangiassi da giorni, dando la caccia alle lucertole e alle gazze ladre, che tentavo di abbattere con la mazzafionda perché andavano ghiotte delle nostre tartarughe appena nate. Mia madre mi perdeva di vista per l’intero pomeriggio, mi rifacevo vivo al tramonto, dopo aver osservato, in cima a un albero, il sole svanire oltre il mare, non lontano da noi in linea d’aria. Quando è infuriato il fragore delle onde arriva fino in camera mia. Una sola volta, sentendo dentro di me un coraggio che non avevo mai sentito prima, mi sono inoltrato nel bosco, qui vicino. Vi sono rimasto intrappolato. Tramontò il sole, ma i miei genitori non mi videro tornare a casa. Avevo smarrito la via. Non ho mai provato un terrore così intenso, così… aggressivo. Calata del tutto la sera, distrutto dall’inutile girovagare, spaventato e disperato, abbracciai un albero, come non credo abbia mai abbracciato un essere umano, e iniziai a pregare Dio, tra un singhiozzo e l’altro, implorandolo di salvarmi e di riportarmi a casa. Pregavo a voce alta, per sovrastare i rumori sinistri del bosco, scricchiolii e canti di animali notturni, civette, gufi, barbagianni, che mi volteggiavano attorno dandomi il tormento, esasperandomi. A un certo punto, nelle tenebre fitte, vidi una luce, la luce di una torcia, e riconobbi la voce di mio padre, che gridava il mio nome. Aveva mobilitato l’intera famiglia. Tutti i miei zii erano impegnati nella ricerca, temevano che fossi precipitato in un pozzo o in un fosso. Temevano che non mi avrebbero più ritrovato o, peggio, che avrebbero sentito la mia voce uscire dalle profondità di una buca dalla quale era impossibile trarmi in salvo, assistendo alla mia lenta agonia. Mi sentii in colpa per giorni e giorni a causa della preoccupazione e della paura che avevo provocato con la mia scellerataggine. I miei genitori mi ricoprirono di baci e di carezze, ma io avrei preferito di gran lunga che mi picchiassero a sangue. Il dolore fisico mi avrebbe distolto dai sensi di colpa. Con gli anni, più che viverla, ho imparato a sfruttarla la terra, da barbaro mi sono fatto contadino, e infine letterato, quando, al liceo, purtroppo, ho scoperto l’esistenza della poesia.
– Di tutto questo, della tua infanzia barbara e della scoperta della poesia devi averne parlato in un libro, vero? – domandò Marta dopo che ebbi terminato il racconto.
– Sì, è vero, e il manoscritto deve trovarsi ancora in qualche cassetto in camera mia. Se vuoi te lo regalo, a me non serve a niente, – risposi ostentando indifferenza, quando invece il ricordo della scrittura di quel libercolo mi aveva punto come uno spillo.
Marta accettò la mia offerta con un entusiasmo per me del tutto incomprensibile e ingiustificato, e dopo aver letto in silenzio la prima pagina di quella che doveva essere, se non ricordo male, una sorta di autobiografia lirica, sul modello del Mio Carso di Slataper, uno dei miei libri preferiti da ragazzo, con quel proposito finale di amore e lavoro che all’epoca avevo fatto mio, commentò: – Sembra l’inizio di un romanzo di Hesse.
– Sei troppo buona. Quelle pagine non valgono un soldo bucato, come mi è stato detto a più riprese da chi di dovere, – risposi, sentendo riaffiorare dentro me un antico rancore, nei confronti degli editori che avevano rifiutato il testo, ma anche nei confronti di me stesso, che non ero stato all’altezza del compito.
Dopo pranzo ci immergemmo nella campagna. Incitavo Marta ad arrampicarsi sugli alberi, la spingevo in alto, assicurandole che l’avrei raccolta al volo se fosse caduta, come un’albicocca matura, ma troppo alta, che si scuote il ramo per farla nostra. Dopo l’ultimo temporale, dopo la pioggia feroce e i lampi accecanti e i tuoni assordanti di quella maledetta notte di sangue, la primavera era esplosa, quasi la natura volesse dimostrarci che lei, nonostante tutto, nonostante il male di noi uomini, restava bella e rigogliosa, e che avremmo potuto pure distruggere delle vite innocenti, spargere violenza e versare sangue a ettolitri, ma non avremmo mai distrutto la sua bellezza. La campagna si era rivestita di fiori e svolazzavano irrequiete le prime rondini.
– Tu per me sei tutto questo, – disse Marta in bilico su un ulivo, allargando le braccia come per abbracciare l’intera campagna, in uno slancio emotivo da adolescente. Sì, rispetto a quando l’avevo vista per la prima volta, spaurita e stanca, era davvero ringiovanita, e molto più di soli dieci anni. Era più giovane di me ora.
Eppure la giornata si concluse in modo spiacevole. Sdraiati sotto la magnolia che svetta imponente nel giardino di casa, attendevamo che il sole svanisse del tutto per poi tornarcene in città, sporchi e sudati come due bambini alla fine di una scampagnata in un giorno di festa. Marta iniziò a fissare con attenzione, socchiudendo gli occhi, un ramo del grande albero. Dopo qualche secondo di intensa osservazione la vidi alzarsi, avvicinarsi a uno dei rami più bassi della magnolia e afferrare qualcosa. Dopo aver fatto ciò si accoccolò al mio fianco e mi mostrò ciò che aveva raccolto, tenendolo sul palmo della mano, le cui pieghe erano sporche di terra e sembravano miniature di solchi appena scavati. Mi alzai sui gomiti e osservai: era una crisalide.
– Ma perché l’hai staccata da lì? – domandai stupito e perplesso.
– Se mi ami davvero come dici, prendila e schiacciala, – rispose Marta con un tono minaccioso.
Vidi brillare nei suoi occhi una scintilla di cattiveria che non sospettavo potesse appartenerle.
– Un uomo cresciuto in mezzo alla natura non le farà mai del male gratuitamente, – dissi assumendo un’aria severa, da genitore infastidito. Marta era un’adolescente impertinente e io il padre che si domanda dove abbia sbagliato educandola.
Marta strinse forte le labbra e poi scoppiò in una risata fragorosa e sgradevole, che, lo confesso, mi irritò non poco.
– Fallo tu, forza, che sei cresciuta tra i palazzi e l’asfalto, – la sfidai.
– Una donna uccide solo per sbaglio, – rispose cambiando tono, meno minaccioso.
Ma in quel momento non riuscii a gestire l’improvvisa irritazione causata dalla sua bravata. Non potevo perdonarla facilmente di aver rovinato così, senza alcun motivo, quella giornata serena e spensierata. Allora dalla mia bocca uscì una frase violenta, distruttiva e ingiusta: – Una donna uccide ogni volta che mette al mondo un figlio.
Non contento, afferrai la crisalide e la strinsi forte nel pugno, guardando Marta dritto negli occhi con uno sguardo asciutto e implacabile, uno sguardo da boia. Marta si fece di fuoco e mi colpì in pieno volto con uno schiaffo.
– Questo è quello che avrebbe dovuto fare tua madre quando ti sei perso nel bosco, – disse poi a denti stretti, schiumando rabbia e aggiungendo: – Cosa credi, che non abbia avuto paura? Che non ci abbia pensato ad abortire quando ho saputo di essere rimasta incinta?
Quella domanda, gridata con forza, tanto che un intero stormo di uccelli volò via dagli alberi circostanti, era il rimprovero più duro che mi avessero mai fatto. Mi ripulii sull’erba la mano sporca della crisalide spiaccicata e afferrai Marta, la strinsi a me. Lei proruppe in un pianto convulso e mi chiese persino perdono. Lei, a me.
– Sono uno stupido e non ti merito – dissi, ripetendolo così tante volte che quelle parole finirono per non avere più alcun senso. Per entrambi, fortunatamente.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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