Crisalidi – Capitolo V

Marta, che l’indomani si fece tatuare davvero Il canto delle crisalidi di Michelstaedter incisole da me lungo il solco della spina dorsale, veniva a trovarmi tutte le sere. Lasciava Marina dai nonni materni, con la scusa di avere del lavoro extra da sbrigare nello studio legale. Suo padre non le credeva, convinto che invece si trattasse di un uomo, ma non biasimava la figlia, la sua unica figlia, alla quale teneva tantissimo, anzi, era contento per lei.
La sera successiva al nostro primo rapporto, Marta accennò alla possibilità di farmi conoscere Marina. In quei cinque anni passati dalla separazione del compagno, Marco, aveva avuto diverse storie, una all’anno più o meno, ma per nessuno di quegli uomini aveva provato quello che provava per me, e il fatto che tutto fosse avvenuto nel giro di poche ore, diceva, era positivamente significativo. A quella proposta non mi opposi. Nutrivo, e nutro tutt’ora, nonostante tutto, un grande rispetto e una grande considerazione per la donna, per l’unica donna che di me ha fatto il suo amante, spingendosi oltre le apparenze e oltre la pietà, l’unico sentimento che, fino ad allora, ero riuscito a ispirare nel genere femminile, prostitute comprese (lo comprendevo dai loro sguardi e dai loro gesti), e avevo apprezzato moltissimo la sua dichiarazione d’amore, prematura per molti di voi, forse addirittura sconsiderata, avventata, ma non per me, che considero vero amore quello che si accende e si consuma nel giro di poche ore, di pochi giorni, che si prova nei confronti di una persona che non si conosce ancora a fondo, che non abbiamo avuto tempo di conoscere a fondo e che non è quello che davvero è, ma quello che noi vogliamo e dunque ci illudiamo sia. Il fatto che io non le avessi risposto ti amo non significava che non la amassi, anzi, tutto il contrario.
Il furore della prima volta non si era più ripetuto, ad esso era subentrata la delicatezza, ma eravamo ancora talmente presi l’uno dall’altro da non pensare alla cena. Dopo, semmai, se avanzava tempo. Tanto, avevamo stomaci così discreti che del digiuno neppure si lamentavano.
Non sapevo quanto tempo sarebbe durata la nostra storia, non potevo saperlo, certo, eppure, a causa della mia natura incline alla problematicità, all’insicurezza e all’angoscia, ero portato a domandarmelo, più volte nel corso della stessa giornata e persino in sua compagnia, ma senza parlarne mai a lei. Finché dura va benissimo così, è tutto di guadagnato, mi rispondevo, sforzandomi di scacciare nubi e ombre. Dopo aver conosciuto Marta, dopo aver fatto l’amore con lei, mi sembrava di essere tornato a respirare a pieni polmoni, come se avessi vissuto fino ad allora in apnea, senza possibilità di riprendere fiato e stessi pian piano, giorno dopo giorno, morendo di asfissia. Inoltre avevo capito che, il giorno in cui con Marta sarebbe finito tutto, mi sarei liberato del sesso: dopo aver fatto l’amore, atto esclusivamente cerebrale perché il rapporto fisico sempre quello è, la mia indole mi avrebbe imposto di non ricorrere più alla prostituzione, rendendomi di colpo insopportabili le sue brutture. Lo sentivo ed era una sensazione piacevole.
Martedì sera. Marta era appena andata via e dovevo chiamare Liza per avvertirla che il giorno successivo, a differenza di tutti i mercoledì dell’ultimo anno, non ci saremmo visti, e che non si trattava di un’eccezione, ma di una risoluzione definitiva. Mi rispose dopo un paio di squilli. Era sobria, per fortuna, e credevo che sarebbe stato tutto più facile così.
– Me l’aspettavo questa telefonata, sai? – esordì Liza senza neppure salutarmi, con un tono beffardo.
– Allora saprai già cosa devo dirti, – replicai adattandomi alla sua mordacità, quando invece nelle intenzioni volevo essere conciliante e grato.
– Che domani sera non dovrò venire a casa tua e che, forse, non dovrò venirci più.
– Esatto.
– A causa della sconosciuta, vero?
– Si chiama Marta.
– Allora avevo ragione.
– Non si tratta solo di sesso.
– Perché tu credi che per me fosse solo sesso? – domandò cambiando improvvisamente tono, addolcendolo, immiserendolo per quanto mi riguardava.
– Era forse anche altro? Ricordi cosa mi hai detto la prima volta che ci siamo visti a casa tua, mentre ti abbracciavo dopo aver ascoltato la tua storia? Non farti illusioni, non sono una di quelle donne che si affeziona, è solo lavoro e nient’altro. Questo mi hai detto, – le rinfacciai con decisione e rudezza, infastidito da quella sua domanda patetica del tutto inattesa e per me sgradevolissima. Sentivo la mia faccia contratta in un’espressione di disgusto, come quando, da bambino, a casa dei miei nonni, giù in Sicilia, ero caduto in una vasca di pietra piena di melma.
– Non essere arrogante solo perché vivi un momento di felicità, niente è per sempre, ricordatelo, – mi ammonì Liza e nella sua voce sentii affiorare il pianto.
– Io non sono felice, Liza, non metterti in testa strane idee. Sono solo rinato grazie a lei, – puntualizzai alzando la voce, gridando quasi.
– Vieni da me, adesso, ti prego, – disse Liza, singhiozzando ormai come una bambina alla quale abbiano sottratto il giocattolo preferito.
– Sono io a pregarti, Liza, ma di non pregarmi. Mi stai deludendo, non me lo sarei mai aspettato da te, – tentai di pungolarla nell’orgoglio, abbassando la voce, ma senza esito.
– Vieni da me e scopami come la tua donna e non come una puttana. Passiamo la notte insieme, per la prima e ultima volta, – mi implorò sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime, tirando su col naso.
– Smettila, – tentai ancora di dissuaderla.
– Vieni, vieni da me, Leonardo, resta con me questa notte, facciamo anche noi l’amore, per tutta la notte, e poi, domani mattina, ognuno per la sua strada, – insisté, disperata.
– Domani mattina ognuno per la sua strada? – ripetei in modo quasi meccanico.
– Sì, sì, – rispose Liza con trasporto, ritrovata la fiducia.
– Giuramelo, – pretesi.
– Te lo giuro, Leonardo, te lo giuro, sulla memoria di mio figlio Nikolaj e tu sai quanto gli volessi bene, – promise con fermezza, scacciando del tutto il pianto.
– Va bene, arrivo, – conclusi riattaccando il telefono.
Cedetti a quel giuramento. Liza non avrebbe mai osato tradire la memoria di suo figlio, e volevo a tutti i costi che quella parentesi con lei si concludesse quella sera stessa, per sempre. Avrei passato un’intera notte in sua compagnia, anche se non lo desideravo affatto, d’accordo, ma l’indomani sarebbe finito tutto. Dopo quella conversazione, dopo le parole sorprendenti, inquietanti, talvolta persino deliranti di Liza, temevo potesse commettere una sciocchezza, una sconsideratezza, nella quale sarebbe stata coinvolta anche Marta e non potevo permetterlo. Quindi meglio cedere alle sue preghiere, concederle quella notte di piacere, che per me sarebbe stata una notte di disgusto, e farla finita una volta per tutte.
Uscii di casa trascinando fuori la bicicletta con energia rabbiosa, come se fosse sua la colpa di tutto. Montai in sella e iniziai a pedalare con veemenza, come un ciclista impegnato in volata, maledicendo me stesso e Liza. Come se non bastasse, iniziò pure a piovere. Guarda tu se questa notte devo buscarmela per davvero la febbre, pensai con ira. E per cosa poi? Per un tradimento che non volevo commettere, ma che mi era imposto per un capriccio del caso. Quante parole che non avrei mai voluto fossero solo parole stavo per contraddire.
Giunsi a casa di Liza, un modesto appartamento all’interno di una vecchia palazzina dalla facciata scorticata, situata tre o quattro chilometri fuori del centro cittadino, fradicio dalla testa ai piedi. Liza si fece trovare in mutandine e reggiseno e la sua opulenza fisica mi offese nel profondo. Varcai la soglia del portone dell’appartamento stringendo i pugni e digrignando i denti, fortunatamente però, vedendomi in quelle condizioni pietose, da cane randagio, in Liza al desiderio disperato subentrò l’istinto materno. Mi spogliò e mi diede un asciugamano, poi con il fon iniziò ad asciugarmi gli abiti.
– Nel bagno, appeso alla porta, c’è il mio accappatoio, mettiti quello, – disse dopo che ebbi terminato di strofinarmi, intirizzito dal freddo.
– Non mi serve un accappatoio per fare quello che dobbiamo fare, – risposi piccato e affatto rabbonito dalle sue attenzioni, che mi sembravano prolungassero solo l’agonia.
Dopo quelle mie parole, Liza, gli occhi ancora gonfi di pianto, spense l’asciugacapelli, adattato per l’occasione ad asciugapanni, e si avvicinò a me. Ci guardammo, sentii il suo respiro leggermente alcolico sulla mia pelle increspata e qualcosa dentro di me, nel mio cervello e nel mio corpo, iniziò a muoversi. Ho conosciuto monaci russi che per sconfiggere la tentazione, solo temporaneamente peraltro, hanno dovuto afferrare un’accetta e farsi saltare un dito. Loro credevano in Dio, io non credo in niente, quindi figuriamoci. Ma Liza pronunciò parole che mi spiazzarono e che accolsi come un dono inaspettato.
– Tu proprio non vuoi, – sussurrò accarezzandomi il viso.
– No, non vorrei, – risposi confidando nella sua intelligenza, sperando che la rendesse capace di cogliere la sottigliezza linguistica e tutto ciò che essa celava.
Allora Liza mi strinse forte a sé e io scomparvi tra le sue lunghe braccia. La nostra differenza d’altezza era notevole, lei sfiorava il metro e ottanta e nei nostri momenti intimi la chiamavo gigantessa, così mi ritrovai la testa sopra il suo enorme seno, il cuscino più comodo che abbia mai provato. Il suo corpo era caldo, caldissimo e riscaldava il mio, gelido. In pochi secondi, grazie a quella trasfusione di calore per via epidermica, la smisi di tremare e ciò che pochi istanti prima nel mio cervello e nel mio corpo aveva iniziato a muoversi, si fermò, come se fosse mia madre ad abbracciarmi.
La stretta di Liza durò parecchi minuti. Staccandosi, disse di aver cambiato idea.
– Ci prenderemo solo un caffè e fumeremo una sigaretta insieme, nient’altro. Perdonami, – disse accarezzandomi di nuovo il viso, con un sorriso dolce e materno sulle labbra dipinte di rosso.
Le risposi che non c’era niente che le dovessi perdonare, niente di niente. Tutto era scomparso, la rabbia, il fastidio, il disgusto. Non provavo più alcun risentimento nei suoi confronti.
Ci rivestimmo entrambi e, seduti al piccolo tavolo della cucina, sorseggiammo il caffè, allungato con la sambuca, parlando come semplici amici, o, meglio, come semplici fratelli, del tutto arresi a noi stessi.
– Non credevo che, dopo una sola settimana, potessi provare per Marta, perché si chiama Marta, vero? un sentimento così forte, – disse Liza senza malizia, davvero sorpresa.
– Se tu avessi conosciuto la mia storia lo avresti creduto, ma non voglio parlare di me, sono così poco interessante, bensì di te. Tempo fa ti ho vista passeggiare, di sera, per il centro di Nettuno, con un uomo, un tuo cliente, a braccetto. Non ti ho più vista in sua compagnia, perché? – domandai con un tono di voce severo, ma conciliante, come se parlassi a quella sorella che non ho mai avuto.
– Speravo che quella sera tu non mi avessi notato… ma sei sempre così attento, non ti sfugge mai niente.
– Mi è sfuggito il tuo affetto per me, ma non tentare di cambiare discorso, – la incalzai.
– Si chiama Mauro, ha la mia stessa età ed è separato, con due figli, un maschio e una femmina. Era un mio cliente, è vero, di quelli fissi, come te, ma lui si era innamorato di me, – confessò Liza.
Intendevo andare fino in fondo a quella storia, non potevo accontentarmi di informazioni sommarie, volevo sapere tutto, volevo scovare una speranza, per quanto flebile, nell’esistenza di Liza e condurla in quella direzione.
– E anche tu provavi qualcosa per lui, altrimenti non ci saresti uscita insieme, alla luce del sole, fregandotene di tutto e di tutti.
– Alla luce del sole? Ma se hai detto tu stesso che era sera?
– Liza, non scherzare… – la ammonii, sforzandomi di non sorridere a quella sua gustosa battuta.
– E va bene, va bene. Mi ha chiesto di sposarlo, promettendomi pure un posto di lavoro nella sua azienda.
– Perché lo hai respinto?
– Non l’ho respinto, – sussurrò Liza bloccandosi subito dopo e fissando il vuoto, come se quella storia, raccontandola, le fosse ripiombata di colpo addosso, immobilizzandola, pietrificandola.
– E allora? – insistei tentando di scuoterla.
– Anch’io mi ero innamorata di lui, ma, oltre a lasciare questo mestiere infame, Mauro mi aveva imposto un’altra condizione: smetterla con l’alcol, – spiegò Liza sorridendo di se stessa in modo beffardo.
– E tu non ce l’hai fatta, – conclusi per evitarle almeno questa amarezza, per alleggerirle un po’ il carico che era costretta a trascinarsi dietro. Tentai persino di farle forza, io, la persona meno indicata di questo mondo per un tale compito, incapace di fare forza a me stesso.
– Liza, non te ne ho mai parlato, ma anche mio padre, fino a un paio d’anni fa, era un alcolizzato. Ci ha quasi rimesso la vita, lo hanno preso per i capelli, e solo dopo essersela vista davvero brutta ha smesso, neanche del tutto. Puoi ancora cambiare la tua vita, il corso degli eventi, devi solo farti forza. Cazzo, sei nata e cresciuta in Siberia, hai perduto un marito, un figlio eppure sei stata capace di ripartire, in un modo o nell’altro, di non buttarti via del tutto. Chiama Mauro, perché sono certo che conservi ancora il suo numero, e ricuci quella tela di speranze che tu stessa hai disfatto. Lo devi alla tua persona, che merita molto, ma molto di più di quel poco che ha oggi, – dissi con un’enfasi forse eccessiva, tanto eccessiva da risultare persino artificiosa, ma davvero sincera, stringendole forte la mano.
– Sei tanto dolce, ma per me non esistono speranze. Io ci annegherò nell’alcol perché questa è la fine che Dio ha deciso per me. La mia vita non ha più senso e non vale più niente. Non piove più, ti conviene andare, – concluse Liza dimostrandosi perfettamente all’altezza di quella parte da eroina tragica protagonista di un romanzo russo dell’Ottocento che le avevo cucito addosso, con quel potente e fatale riferimento a Dio che mi fece piombare di colpo in una stamberga della Pietroburgo di Dostoevskij, magari durante un’immaginifica notte bianca.
Me ne andai, dicendo addio a Liza e sapendo fin troppo bene che, dopo avermi visto svanire in bici nella notte dalla finestra della cucina, avrebbe bevuto fino a stordirsi, fino a perdere i sensi.
Le strade bagnate erano deserte e solo l’ululato di qualche cane insonne interrompeva il silenzio tombale della notte. In tanta desolazione, non desideravo altro che seppellirmi sotto le coperte e lasciarmi cullare nel sonno dal ricordo luminoso e dolcissimo di Marta.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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