Crisalidi – Capitolo IX

Per due volte all’anno Nettuno si veste a festa. Il primo sabato di maggio e poi la domenica della settimana successiva, per la processione della Madonna delle Grazie. Nella processione d’andata la statua lignea della Vergine viene trasportata dal Santuario di Nostra Signora delle Grazie e di Santa Maria Goretti, che si erge alla fine del lungomare Matteotti, alla chiesa di San Giovanni, la più antica della città, all’interno del borgo medievale. Nella processione di ritorno, ben più rapida e meno emotiva di quella d’andata, viene riportata nella sua abituale dimora. In questi giorni di festa è come se Nettuno si risvegliasse di colpo da un torpore lungo un anno. Le vie del centro cittadino vengono addobbate con imponenti luminarie multicolore e in strada si riversa di fatto l’intera popolazione nettunese, alla quale si aggiungono numerosi abitanti dei paesi limitrofi. Credetemi, muoversi tra la folla durante la processione è una vera e propria impresa.
La statua della Madonna, ricoperta di oggetti d’oro, collane, bracciali, orecchini, spille, donati dai fedeli, si trascina dietro, oltre ai rappresentanti delle istituzioni, le priore, giovani che indossano il costume tradizionale delle donne nettunesi e ogni anno vengono estratte a sorte, bambine e bambini vestiti da angeli e da paggetti, neocomunicati, vecchie incatenate e scalze, completamente vestite di nero, con in mano grossi ceri che sgocciolano lasciando sull’asfalto le tracce del loro passaggio, esponenti delle varie confraternite locali, e viene trasportata dai cosiddetti incollatori, uomini vigorosi che si danno il cambio ogni tot di metri. Anche mio padre è stato un incollatore, come tutti i suoi fratelli del resto, e mi ha sempre raccontato che lì sotto, schiacciati dal peso della scultura, si bestemmia come in nessun altro posto. Di cuore, perché si fatica, si suda e si soffre davvero come schiavi, poi si domanda perdono alla Vergine, che assolve tutti con quel suo sguardo indulgente e affettuoso.
Il percorso della processione prevede il passaggio in via Carlo Cattaneo. La statua, seguita dal folto e multiforme corteo, sfila proprio sotto la finestra della mia cucina, e anche sotto la finestra della mia camera da letto, dove di solito mi affaccio per gettare un’occhiata. Ed è proprio sul balcone della mia camera che io e Marta ci appostammo in attesa del passaggio della Vergine. Marta preferì affacciarsi qui e non dall’altra parte.
– Io non voglio più affacciarmi a quella maledetta finestra. Se fossi in te la farei murare, – ruggì quando le domandai scioccamente da quale finestra volesse assistere alla processione, lanciandomi uno sguardo feroce.
Avevo altro per la testa quel giorno, della tragedia alla quale avevamo assistito me ne ero davvero dimenticato. Non era indelicatezza la mia, ma sbadataggine.
– Sai, quand’ero ragazzo, io e i miei amici aspettavamo con ansia questo giorno di festa, perché potevamo fare più tardi del solito. Alla Madonna gettavamo solo uno sguardo, di sfuggita, quel tanto che bastava per poter dire ai nostri genitori di averla vista, poi passavamo tutta la serata tra le bancarelle, sparando con i fucili ad aria compressa, tentando di centrare le ampolle di vetro con le palline da ping pong, ingozzandoci di dolciumi. Insomma, in poche ore dilapidavamo l’intera paghetta settimanale, – dissi abbracciando Marta alle spalle, cingendole la vita sottile e poggiando il mento sulla sua spalla. Mi sentivo ancora in colpa per quella domanda idiota che aveva inaugurato la nostra serata.
– Perché, tu hai avuto degli amici? – domandò con ironia, ma senza risentimento. Nel momento in cui mi ero scusato di quell’infelice e sciocco interrogativo, un secondo dopo averlo posto, nel tono della mia voce e nel mio sguardo basso aveva sentito e visto un sincero e profondo dispiacere.
– Sì, per quanto possa sembrare strano, ho avuto molti amici. Ma nella vita di un uomo le persone sono come oggetti che si perdono, per tanti motivi, talvolta senza neanche volerlo. C’è chi si è sposato e ha messo su famiglia, chi si è trasferito altrove per lavoro, forse persino chi è morto, e non ci si vede più. Tra tutti questi amici, ce n’era uno che per me era più di un amico, un vero e proprio fratello. Lo chiamavo Faber, perché amava De André e il suo dispiacere più grande era quello di non essere riuscito ad assistere a un suo concerto dal vivo. Pensa, aveva ricoperto le pareti della sua camera di tutti, ma proprio tutti i testi del cantautore, ricopiandoli uno per uno, con penne e pennarelli di colori diversi, a seconda di ciò che la canzone gli trasmetteva. Caso strano, per i testi malinconici utilizzava toni sgargianti, per quelli gioiosi invece toni cupi, un dato che svela tutta la complessità del suo carattere, in certe occasioni incomprensibile anche per me, che lo conoscevo meglio di ogni altro. Siamo cresciuti insieme, condividendo tutto, una volta persino una ragazza, dopo che Faber si era stancato di lei e lei si era gettata tra le mie braccia solo perché in me rivedeva lui. Più di una volta ci hanno scambiati per fratelli… ci assomigliamo molto anche fisicamente. Poi, qualche anno fa, credo avessi più o meno venticinque anni, stavo finalmente per concludere il percorso della laurea triennale, ho chiuso con lui, da un giorno all’altro e senza dargli una spiegazione. Mi ha chiamato un paio di volte, non gli ho risposto e non mi ha chiamato più. Non si è fatto più vivo, dimostrando così di aver accettato la mia decisione di separarmi da lui, pur ignorandone la ragione.
– Perché ti sei comportato in questo modo? – domandò Marta con l’interesse vivo, vibrante di chi sa che dietro una confessione inattesa di quel tipo si cela un risvolto recente che deve averla ispirata.
– Può sembrare assurdo, lo so bene, forse addirittura disumano, ma il fatto è che la sua presenza mi divenne all’improvviso insopportabile, insostenibile, così, di punto in bianco, senza un motivo. Una mattina mi sono svegliato e mi sono detto: io Faber non lo voglio vedere più, io Faber non lo sopporto più. Forse non sopportavo più me stesso in quel momento e non potendo sopprimere me ho soppresso chi mi assomigliava di più. Non ho mai trovato il coraggio di dirglielo. Una volta, mentre correvo sul lungomare di Anzio, doveva essere già passato un anno dalla mia sparizione, l’ho incontrato e mi ha chiesto che fine avessi fatto, perché fossi sparito. Gli ho risposto che sarebbe stato troppo complicato spiegarlo e sono fuggito via. Da quel giorno non l’ho più rivisto.
– Perché hai sentito il bisogno di raccontarmi questa storia? C’è un motivo, vero?
– Sì, stamattina ho trovato una sua lettera nella cassetta della posta.
– Cosa ti ha scritto? – chiese Marta con un tono fremente di curiosità e nel quale si percepiva persino una nota di preoccupazione. Forse immaginava una nuova tragedia.
– Mi ha scritto che se ne va, ma senza specificare dove, perché questa vita lo ha deluso, come le persone a cui teneva di più. Si è chiesto ogni giorno perché io lo abbia abbandonato, ha utilizzato proprio questo termine, abbandonato, citando persino il caso di Cristo sulla croce, quando, al culmine della disperazione, pone la stessa domanda a Dio, ma senza riuscire a trovare una risposta.
– Oddio, forse si ucciderà… – sussurrò Marta voltandosi di scatto verso di me.
– No, tranquilla. Mi ha sempre contestato l’idea del suicidio, sempre, da quando eravamo adolescenti e io ritenevo il suicidio il gesto più coraggioso e onesto di tutti. Lui ribatteva che invece è la sopravvivenza a richiedere un coraggio e un’onestà enormi. Eravamo in disaccordo solo su questo, e sulla prostituzione, ora che ci penso. A differenza di me, non ha mai pagato per fare l’amore.
Marta, rassicurata dalle mie parole, iniziò a canticchiare Mio fratello è figlio unico di Rino Gaetano.
– Mi sono sempre chiesta chi fosse questo Chinaglia, – disse dopo aver smesso di canterellare.
Staccandomi da lei, le indicai il poster di Long John attaccato alla parete, il dito indice rivolto con fierezza e arroganza verso la curva sud dopo un gol nel derby contro la Roma.
– Ah… ora ho capito, era un giocatore della Lazio.
– Giorgio Chinaglia era più di un giocatore. Tanto per farti capire il personaggio, c’è una foto bellissima, in bianco e nero, che lo ritrae mentre legge un giornale seduto proprio sotto una scritta impressa sul muro con la vernice spray che recita così: laziali bastardi. Più lo insultavano, più si caricava. Con il suo fisico grosso e sgraziato, era una furia in campo, una forza della natura. Qualcosa di molto simile a un bisonte. È morto qualche anno fa, in Florida, latitante.
– Perché?
– Per una brutta storia che non merita di essere raccontata. Chinaglia è quello della foto che ti ho descritto. Comunque, terminando il discorso relativo a Faber, mi ha scritto che vuole ricominciare da zero, lontano da qui.
– Conoscendolo così bene, dove te lo immagini? – domandò Marta mentre riprendevamo la posizione di prima, lei lo sguardo rivolto alla strada, io stretto alla sua vita.
– Me la sono posta molte volte questa domanda nel corso della giornata. Non sono riuscito a trovare una risposta certa, ma ovunque andrà Faber, lì deve esserci il mare, un mare vivibile, come il nostro, che lui ama tanto.
– Come me e Marina. Non è che ci abbandonerai da un giorno all’altro, svanendo nel nulla senza neppure dirci addio? – chiese Marta, ma con ironia.
– Chi può dirlo? – domandai a mia volta, stando al gioco e baciandola sul collo.
– Beh, sappi che se dovesse accadere, non sarei così pacifica e arrendevole come il tuo amico, ma ti darei il tormento, – rispose, questa volta con meno ironia e più serietà.
– Non lo farei mai con te. Con qualunque altro essere umano sì, ma con te mai, – la rassicurai stringendola forte e sollevandola di qualche centimetro dal pavimento.
– Voglio che me lo giuri davanti alla Madonna, – mi ordinò.
– D’accordo, bambina viziata.
– Evviva Maria! Evviva Maria! – risuonò prepotente in strada l’urlo della folla in trepida attesa sotto di noi. Marta si unì con entusiasmo al grido, proprio come una bambina eccitata, che si lascia trasportare dall’euforia generale.
Vedemmo la statua, trascinata dai forzuti e bestemmianti incollatori, girare l’angolo e avvicinarsi a noi. Vidi Marta segnarsi, mentre io le sussurravo all’orecchio il mio giuramento.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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