Crisalidi – Capitolo IV

Alla fine accadde ciò che avrei voluto non accadesse, ma che era inevitabile accadesse. Tutto ciò che accade è inevitabile, per questo non ho mai compreso né tantomeno compatito chi piagnucola sul latte versato. E la volontà non c’entra niente, perché la volontà non esiste, è solamente una delle tante invenzioni, o forse sarebbe meglio definirle favole, di cui l’uomo si serve nel goffo e maldestro tentativo di rendere meno misero il suo stato, come l’invenzione o favola di Dio. Volere è potere: non sono molti gli slogan sciocchi e infantili tanto quanto questo. Giusto qualche giorno fa, alla radio, ho ascoltato uno spot pubblicitario in cui (se non ricordo male si trattava di una nota casa automobilistica tedesca), al termine di una serie di luoghi comuni imbarazzanti, snocciolati da una possente voce maschile, si suggellava la réclame proprio con questo motto, volere è potere. Non devono avere una grande considerazione dei loro possibili compratori.
Insomma, non appena Marta, la sera successiva, varcò la soglia del portone del mio appartamento, ci saltammo addosso, ci aggredimmo, ci abbarbicammo l’uno all’altro come l’edera sui muri. Ci baciammo con una ferocia che credevo appartenesse solo al predatore, il quale, accecato dalla fame, si avventa sulla preda con le fauci spalancate, e che non ho mai immaginato neppure in un assassino. Ci divorammo e i vestiti ce li strappammo di dosso con rabbia, furiosi di dover perdere tempo in quella sciocca incombenza. Per quale fottuto motivo non andiamo in giro nudi? dobbiamo aver pensato entrambi lacerandoci gli abiti, gettandoli via a caso, spargendoli ovunque, come semi improduttivi. Le mie mutande volarono nel camino acceso e bruciarono in pochi istanti.
Non ero mai stato così barbaro a letto, e neppure Marta, ne sono certo. Non avevo mai gemuto in quel modo primitivo, quasi animalesco, prendendo una donna, e non avevo mai sentito gemere in quel modo una donna in mia compagnia. Non avevo mai sentito i miei muscoli e i miei nervi tendersi in quel modo, fin quasi a spezzarsi, lacerarsi. Per la prima volta dentro di me sentivo l’ardore irrefrenabile dell’eroe omerico che battaglia sotto le mura di Troia e che uccide senza averne coscienza, ebbro del sangue che gli schizza addosso a gocce grosse e dense.
Esaurita la tempesta, ci ritrovammo uno affianco all’altro, provati dallo sforzo, le fronti madide di sudore, ancora ansimanti, svuotati d’ogni energia, ma soddisfatti, ed io più di lei, sicuro.
– Non sono stato alla tua altezza, – dissi dopo aver ripreso fiato, accendendomi una sigaretta e porgendone una anche a lei. Fumavamo entrambi Lucky Strike.
– Perché dici così? – domandò Marta afferrando la sigaretta, incastrandosela tra le labbra e dandole fuoco.
– Nel sesso un uomo non sarà mai all’altezza di una donna. Perché l’uomo ha un inizio e una fine, si accende e si consuma come questa sigaretta, la donna no, la donna resta accesa, – spiegai tra una boccata e l’altra di fumo, che inspiravo con avidità, come se lo mangiassi.
– Ma tutti gli uomini lo ignorano, credendosi onnipotenti, illudendosi che dipenda tutto da loro. Se sapessero quanto le donne si sentano insoddisfatte dopo un rapporto sessuale, si metterebbero a frignare come bambini, – disse Marta ridendo forte, come se con quelle parole si vendicasse in un colpo solo dell’intero genere maschile.
– Sai, Marta era il nome della mia prima ragazza, – confessai con un’ingenuità che credevo non mi appartenesse più, comprendendo in quel momento che non siamo poi così sporchi come crediamo o come vogliono farci credere. Resta sempre un fondo di candore infantile dentro di noi, malgrado tutto.
– Hai pensato a lei facendo l’amore con me? – domandò Marta e sentii vibrare una piacevolissima nota di gelosia nella sua voce, che mi lusingò come una delicata carezza.
– No, – risposi sorridendo.
– E a chi o cosa hai pensato?
– Non ho pensato a niente e nessuno facendo l’amore con te. Aggrappato al tuo petto da ragazzo come uno scalatore alla parete di una montagna, è svanito tutto, il mondo intero è scomparso ed è stato come morire.
– Oddio…
– Che c’è?
– Riesci a farmi sciogliere a ogni tua parola. Apri bocca e mi sento impotente, del tutto in balia della tua voce, – confessò Marta poggiandosi su un gomito e guardandomi dritto negli occhi. La baciai.
– Parlami della tua prima ragazza, – disse dopo che le nostre labbra si furono allontanate.
– Va bene. Ci ritrovammo a letto insieme durante una gita scolastica nel Nord-Est, tra Padova, Vicenza e Venezia, al secondo anno di liceo. Prima di quella notte non sospettavo neppure che potesse piacermi. Fu lei a scegliere me e io non potei tirarmi indietro. Mi disse persino di voler fare l’amore con me, ma non ne ebbi il coraggio. Cazzo, avevo solo sedici anni, lei non li aveva addirittura neppure compiuti, perché era nata ad agosto ed eravamo a marzo, come adesso. Per quanto lo abbia sempre desiderato con tutto me stesso, non sono mai riuscito a essere disonesto. La nostra storia andò avanti tre anni e fu una tortura, per un periodo presi persino degli antidepressivi. Ci lasciavamo e ci riprendevamo praticamente ogni giorno, dicendoci addio oggi e ritrovandoci domani. È capitato persino che questo tira e molla avvenisse nell’arco della stessa giornata. Poi lei fu bocciata e non ci vedemmo né sentimmo più, per il bene di entrambi. Dopo quella notte nel Nord-Est non ho più avuto l’occasione di fare l’amore con lei.
– Ne parli come se da quella notte fosse passata solo una settimana.
– E invece sono passati sedici anni esatti.
– Se lei ascoltasse le parole che mi hai appena detto cadrebbe ai tuoi piedi, ne sono sicura. Io del mio primo ragazzo invece non ricordo niente, e non sono neanche sicura che si chiamasse Ettore. Non lo amavo, volevo solo essere all’altezza dei miei sogni.
Le sfiorai la guancia con la punta delle dita, lei socchiuse gli occhi e sospirò. Siamo ciò che abbiamo vissuto. Siamo il nostro passato, ma il passato non esiste, constatai con mestizia per la millesima volta in vita mia. Ma non lo dissi, perché non volevo angosciarla. Meglio cambiare discorso, alleggerire il tono se possibile, afferrare l’effimero per i capelli e trascinarlo al centro della stanza. Dovetti ricorrere a tutte le mie poche forze, perché nelle vene non mi scorre sangue, ma pedanteria.
– Ho notato che sul collo hai tatuata una crisalide, – dissi.
– Sì, ho deciso di tatuarla nel momento stesso in cui ho scoperto di essere incinta. Mi piaceva l’idea di immaginare il mio grembo come un bozzolo dal quale sarebbe uscita una farfalla. Poi però con il tempo ho capito che, almeno per quanto riguarda noi uomini, non basta semplicemente nascere per uscire dal bozzolo e diventare farfalle. Per questo motivo ho deciso di lasciare il tatuaggio così, di non aggiungere una farfalla vicino alla crisalide, come avevo pensato all’inizio.
Le parole di Marta mi colpirono e strapparono come un fulmine colpisce e strappa il tronco di un albero durante un temporale. Evidentemente quella sera non poteva esserci spazio per l’effimero. Dovevo aver afferrato per i capelli e trascinato al centro della stanza qualcuno che in apparenza gli assomigliava molto, ma non era lui.
Scattai in piedi e, nudo come un verme, mi avvicinai alla libreria. Afferrai la raccolta di poesie di Michelstaedter e lessi a Marta Il canto delle crisalidi.

Vita, morte,
la vita nella morte;
morte, vita,
la morte nella vita.

Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte
filammo a questa morte.

E più forte
è il sogno della vita –
se la morte
a vivere ci aita

ma la vita
la vita non è vita
se la morte
la morte è nella vita

e la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita.

Ma se vita
sarà la nostra morte
nella vita
viviam solo la morte

morte, vita,
la morte nella vita;
vita, morte,
la vita nella morte. –

– Dovresti tatuarti questi versi sotto la crisalide, sono perfetti, – dissi dopo aver terminato la lettura, aver posato la raccolta di poesie di Michelstaedter sul comodino ed essermi sdraiato di nuovo accanto a lei.
– Voglio che sia tu a imprimerli sulla mia pelle, con la tua mano, e domani andrò a farmeli tatuare. L’inchiostro fisserà la tua scrittura su di me per sempre, – rispose Marta mettendosi prona sul letto e offrendomi la sua schiena nuda, il lenzuolo bianco a coprire la parte inferiore del corpo, dalle natiche in giù.
Non mi opposi. Afferrai il libro, la penna e, accomodandomi sulla schiena di Marta, incisi Il canto delle crisalidi sulla sua pelle, lungo il solco della spina dorsale, aggiungendo alla fine della poesia: C.M. tramite me.
Marta era stata fortunata, perché la mia non è una grafia, ma una calligrafia. Mi hanno sempre fatto il complimenti per la mia scrittura, forse troppo piccola, è vero, ma elegante e regolare. Ricordo che una volta, quando andavo ancora all’università, sul treno di ritorno, un uomo singolare (sedendosi accanto a me aveva esordito così: «Il vento porta via le nuvole come il cancro ha portato via mia moglie»), notando la mia scrittura mi consigliò vivamente di brevettarla, di farne un marchio registrato, affinché non me la rubassero. Assecondai la sua follia, perché di un uomo folle doveva evidentemente trattarsi: lo ringraziai del suggerimento e mi impegnai a metterlo in pratica al più presto. Soddisfatto, l’uomo si addormentò e io sgattaiolai via da lui, un paio di vagoni più avanti, ma imprimendomi nella memoria la sua splendida frase d’esordio, accarezzando persino l’idea di costruirci una storia sopra.
– Ecco fatto, – dissi terminato il lavoro.
Marta si alzò dal letto e si infilò la maglietta, senza reggiseno (non lo indossava mai, non ne aveva bisogno ed era l’unico beneficio che le garantiva il suo petto da ragazzo, mi spiegò una volta), affinché l’inchiostro temporaneo della penna non sbiadisse o si rovinasse. Disse poi che ora toccava a me mettermi prono sul letto. Voleva vedere bene il mio tatuaggio, che copre l’intera superficie della schiena.
– Cosa rappresenta? – domandò sedendosi sopra di me.
– L’intero Inferno dantesco, secondo le illustrazioni di Doré. In cima, all’altezza del collo, ci sono Dante e Virgilio davanti alla porta d’ingresso del doloroso regno…
– Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente, giusto? – mi interruppe Marta, recitando a memoria la prima terzina del III canto dell’Inferno, con voce contraffatta, grave e cavernosa.
– Giusto. Poi, via via, dall’alto in basso, ci sono gli ignavi, i non battezzati, i lussuriosi, i golosi, gli avari e i prodighi, gli iracondi e gli accidiosi, gli eretici, i violenti contro il prossimo, omicidi, tiranni e predoni, i violenti contro se stessi, suicidi e scialacquatori, i violenti contro Dio, bestemmiatori, sodomiti e usurai, i ruffiani e i seduttori, gli adulatori e i lusingatori, i simoniaci, i maghi e gli indovini, i barattieri, gli ipocriti, i ladri, i consiglieri di frode, i seminatori di discordia, i falsari, gli sfidanti dell’autorità divina e i superbi, i traditori dei parenti, i traditori della patria, i traditori degli ospiti e i traditori dei benefattori. Vedi, in fondo, all’altezza dell’osso sacro, si trova Lucifero che, conficcato nel lago ghiacciato di Cocito, nelle sue tre bocche divora Giuda, Bruto e Cassio, – terminai di illustrare il tatuaggio.
Sentivo Marta percorrere con il dito indice l’intero tragitto infernale, seguendo la mia spiegazione.
– Per quale colpa verresti punito se esistesse l’inferno? Tra quali peccatori precipiteresti? – domandò iniziando a massaggiarmi le spalle.
– Verrei scaraventato tra gli ignavi, costretto a inseguire per l’eternità un’insegna, mentre vespe e mosconi mi tormentano il corpo e il sangue che sgorga dalle punture degli insetti, misto alle lacrime, viene raccolto da vermi schifosi. Non mi verrebbe riconosciuto nemmeno il diritto di cittadinanza all’inferno, perché gli ignavi vengono puniti al di fuori di esso. Neppure Lucifero vuole avere a che fare con noi, tanto siamo inetti. Tu invece, tra quali peccatori ti immagini?
– Tra i lussuriosi! – esclamò Marta avventandosi, come un vampiro assetato, sul mio collo, affondando i denti nella carne e mordendomi con forza, con così tanta forza che dalla bocca mi uscì un mugolio cagnesco.
– Dimmi che si tratta di piacere e non di dolore, – mi sussurrò all’orecchio, trasformando i morsi in baci, in baci ardenti e convulsi.
– Sì, mia Pentesilea, – mormorai con un filo di voce.
– Come mia hai chiamata? – domandò Marta dopo che l’impeto famelico fu passato, sdraiandosi accanto a me, ma supina.
– Pentesilea, – ripetei.
– E chi sarebbe?
– La regina delle Amazzoni.
– Interessante… anche se per fare un’amazzone ce ne vogliono almeno tre di me. Liza lo è, così alta e prosperosa. Dovresti chiamare lei Pentesilea mentre fate sesso, – mi provocò Marta, le labbra atteggiate a un ghigno beffardo.
– Non ti ho chiamata Pentesilea per la stazza, ma per i morsi, – spiegai simulando un’aria offesa. Sapevo che non voleva farmi del male, ma solo giocare, stuzzicarmi un po’.
– Alla regina piaceva mordere gli amanti?
– Non esattamente. Nel mito classico Achille si innamora di Pentesilea dopo averla uccisa e ha con lei un rapporto sessuale necrofilo.
– Andiamo bene…
– Lasciami finire. Kleist, un grande drammaturgo tedesco, ribalta il mito: è Pentesilea a uccidere Achille, divorandolo, nel vero senso della parola, insieme alla sua muta di cagne, tutte rigorosamente femmine. «Quante, attaccate al collo dell’amante, ripetono di continuo queste parole: che l’amano, oh, l’amano tanto, che per amore potrebbero anche mangiarlo; e dopo, ripensando alla parola, le pazze scoprono di essere sazie fino alla nausea. Vedi, mio amato, per me non fu così. Guarda: quando io mi avvinghiai al tuo collo, lo feci davvero, nel senso autentico della parola; non ero così pazza come sembravo», dice la regina prima di togliersi la vita.
– Mi piace…
– Lo so, se vuoi posso prestarti il libro. Ora però dovrei confessarti una cosa, – dissi cambiando discorso, perché non volevo certo annoiarla con le mie chiacchiere letterarie, con le mie citazioni, e poi sentivo davvero come un obbligo doverle dire ciò che le stavo per dire.
– Non mi piacciono le confessioni, – si schermì Marta, – distruggono tutto. Le confessioni sono terremoti e io non voglio che questo momento vada in pezzi, non lo sopporterei, – aggiunse con una determinazione che mi sorprese, calandosi sugli occhi la visiera dell’elmo, lancia in resta, pronta a respingere l’assalto del destino.
– Ma tu devi sapere di essere la prima, – insistei.
– Che vuoi dire? – domandò con sospetto, incuriosita dalla mia misteriosa allusione.
– Voglio dire che in trentadue anni di vita tu sei la prima donna normale con la quale vado a letto, ovvero la prima donna che non devo pagare. È la prima volta che non faccio sesso, ma faccio l’amore, – confessai sentendomi di colpo più leggero.
Marta mi abbracciò, stendendosi sopra di me e passando le sue braccia esili attorno al mio petto altrettanto esile, la testa poggiata sul cuscino, accanto alla mia, i suoi occhi nei miei, quattro specchi d’acqua che si fondevano e confondevano, creandone uno solo, del tutto nuovo e inesplorato.
– Spero di non aver distrutto niente, – aggiunsi, ma con la certezza di non averlo fatto, anzi, di aver costruito un edificio sentimentale solido, antisismico. Era il suo abbraccio a darmi questa certezza.
– Sai bene di non aver demolito nulla, – confermò Marta, domandandomi poi cosa avessi provato facendo l’amore per la prima volta, con lei.
– Per la prima volta mi è sembrato di trasformarmi davvero da crisalide in farfalla, di uscire finalmente dal bozzolo nel quale mi ero rintanato e svolazzare libero all’aria aperta, – risposi.
– Leonardo… – mi chiamò dopo un paio di minuti di silenzio e di attenta riflessione.
– Che c’è? – domandai.
– C’è che mi sono innamorata di te, – rispose Marta con un tono di voce, come definirlo, arreso, o forse disarmato, ecco, sì, disarmato, che non lasciava spazio a interpretazioni, che non lasciava dubitare della sincerità di quella dichiarazione e che non avevo mai sentito prima di allora in una donna.
Che valga la pena vivere per ascoltare, anche solo per ascoltare, un giorno, una modulazione vocale di quel tipo, non oso dichiararlo, sarebbe davvero troppo, ma in quel momento ne ebbi il sospetto.

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